
Ho periodi che non concludo nulla, che non ho idea di cosa voglio, cambio idea spesso e il tempo scorre senza giungere a nulla di fatto. Questi periodi credo capitino anche a voi. Sono più o meno lunghi e a volte mi fanno sentire come il gallo segnavento che si vedeva un tempo sui tetti delle case.
Questo fenomeno fa parte della nostra umanità, tutti funzioniamo così, tant’è che il rimedio a tale fenomeno lo troviamo comune in numerose culture e religioni del Sub-continente Indiano con decine di definizioni e origini più o meno antiche.
Partiamo dalla rappresentazione epica, strumento molto diffuso nell’antica tradizione indiana per esporre concetti complessi con storie comprensibili a tutti.
Si narra che Saṃkalpa (संकल्प) fosse uno dei figli di Dharmadeva (धर्मदेव) nato da una delle sue dieci mogli, Saṃkalpā (संकल्पा), a sua volta figlia di Daksha (दक्ष). Lui era il padre di Kāma (काम) e creato tramite Brahmā (ब्रह्मा). Con questo possiamo affermare di aver già spiegato tutto, se sapessimo chi sono i personaggi dello scenario. Allora approfondiamo la conoscenza di ognuno di loro per comporre il puzzle.
Iniziamo dal tramite, Brahmā, colui che crea l’universo, l’energia generatrice. Grazie a questa energia Saṃkalpa ha avuto Kāma, il desiderio. Saṃkalpa giunge dall’unione della divinità Dharma con Saṃkalpā, rispettivamente le regole e l’intenzione (al caso nominativo del sanscrito). Questa intenzione è figlia di Daksha, uno degli agenti della creazione, iconograficamente rappresentato da un uomo dal corpo robusto e viso di bell’aspetto.
Possiamo così intuire il concetto che Saṃkalpa è frutto della retta intenzione di creare qualcosa nella propria vita, investendo energia generatrice che realizza il desiderio. In altre parole, immedesimare la nostra volontà.
Capito il significato del termine è doveroso ridefinirlo finemente prestando attenzione al fatto che si tratta di un concetto che è strettamente connesso alla nostra responsabilità nelle azioni che compiamo e che non è delegabile ad alcuna forma divinatoria. Questo dettaglio è molto importante, un pilastro dei culti del Sub-continente Indiano: se vogliamo qualcosa spetta a noi occuparcene e non ai santi ne a Dio.
Approfondiamo brevemente l’origine del termine, risultato della somma del prefisso sam (insieme a, unione, legame) e kalpa dalla √klp (praticabile, fattibile, possibile), da cui unirsi a ciò che possibile, realizzare qualcosa, dare forma a un proprio intento.
Questo fa scaturire in me una domanda: come fare? La risposta ha due risvolti. Il primo consta di voler realizzare un qualcosa nella propria vita e l’altro difficile, ossia gli ostacoli che si frappongono tra l’intento e la sua realizzazione. Il secondo tra gli ostacoli più importanti ci sono quelli che riguardano quanto è concreto il nostro intento, il che significa voler realizzare qualcosa che sia oggettivamente realizzabile. Poi ci sono i sabotaggi della nostra mente.
Poiché Saṃkalpa è l’intento personale di realizzazione di un proprio desiderio che arriva profondamente dentro di Sé e prende forma nella mente per manifestarsi poi nel mondo, bisogna porre molta attenzione a cosa in noi ci può impedire di arrivarci.
Facendo un esempio semplice, se sentissi la spinta a conseguire un titolo di studio ma la mia bassa autostima mi dicesse che non sono in grado di riuscirci, ci saranno delle forze occulte, inconsce, che mi spingeranno a compiere delle azioni boicottanti, ad esempio a distrarmi ogni volta che voglio sedermi alla scrivania e studiare.
Nelle varie culture incontriamo appunto l’epica indiana che ci esprime il concetto come esposto e inerente la filosofia induista.
Lo yoga classico vede questo intento come manifestazione del pensiero e come tale bisogna liberarsene per giungere alla quiete della mente e allo stato di Samadhi.
Passando in rassegna il Buddhismo, troviamo una visione che tende al prendere distacco dal risultato, dalla concretizzazione dell’intento personale previlegiando una visione di non proprietà della realizzazione.
Un ulteriore punto di vista che prendiamo in considerazione è la visione dello Shivaismo tantrico.
Coniugando la propria intenzione con la filosofia di celebrazione della vita, il risultato è simile alla metafora di una pianta. Considerando la pianta come il processo per ottenere il frutto della nostra intenzione, il seme da cui parte è la chiave fondamentale del nostro intento.
La domanda pragmatica che sorge spontanea è come posso fare con lo yoga? Lo yoga nidra, l’haṭha yoga e la meditazione possono fare molto su diversi piani.
Andando con ordine, lo yoga nidra prevede la scelta di un intento prima di sdraiarsi e farsi guidare dall’insegnante. Questo intento formulato sul piano cosciente, entra in profondità nell’inconscio durante la pratica. Questo processo avviene perchè si abbassa sistematicamente il livello di coscienza vigile con approccio metodico e preciso.
L’haṭha yoga nelle sue molteplici manifestazioni di stili e metodi, il più delle volte non prende in considerazione l’intento specifico come fine. Però ci sono alcuni metodi, i più raffinati, che prevedono di porsi un’intento specifico, suggerito dall’insegnante, così che durante la pratica lo si incarni āsana dopo āsana e la sequenza pensata appositamente porti il praticante a sperimentare nel corpo l’intenzione specifica. Questo intento solitamente viene proposto dall’insegnante, ma crescendo nella propria autonomia si può sperimentare da se nella pratica personale.
Infine la meditazione come strumento anche per sviluppare e riconoscere questa abilità spontanea.
La meditazione è porsi in uno stato dove la mente rivolge totalmente l’attenzione verso un oggetto. Inizialmente questo orientamento necessita che la mente sia in stato di veglia e presente, progressivamente si entra in profonda connessione con se stessi superando gli strati di coscienza fino a giungere in contatto con il proprio Sé. Giunti così in profondità poi può avvenire che sgorghi spontaneamente un’intenzione sotto forma d’immagine, d’intuizione, di percezione. Questo processo può avvenire anche a distanza di tempo dopo la pratica di meditazione. Solitamente è necessario avere costanza nella pratica di meditazione, a volte c’è bisogno di mesi o anni per sviluppare questa abilità spontanea e riconoscerla.
Qualunque sia il processo intrapreso, l’elemento fondamentale è lo stesso, il Saṃkalpa non può arrivare da un ragionamento, bensì emerge dalla mente da uno strato più profondo di non mente, proprio come un seme sepolto sotto la terra, quando germoglia all’improvviso spunta in superficie.
Ciò non significa sia errato ragionare sulle cose, anzi, ma l’input iniziale deve manifestarsi e giungere da questo substrato di coscienza. In questo modo si da la possibilità a se stessi di compiere azioni e scelte secondo ciò che è più corretto per se e non a seguito di processi razionali mentali. I processi razionali giungono dopo che l’intento è stato compreso.
Ritornando alla metafora del seme, se poniamo un semino sconosciuto nella terra lui poi germoglierà. In base alla sua manifestazione scopriremo di che pianta si tratta. Capiremo come far crescere e accudire questa pianta e sapremo anche che frutti potrà dare quando sarà il momento. Identico è il processo con i propri Saṃkalpa.
Ciò che ci separa da essi sono le sovrastrutture mentali. Ognuno ha la propria gabbia dorata che deve conoscere, renderla permeabile al bisogno e quindi attingere dalla propria fonte. Se si procede così il risultato che si ottiene è quello della profonda e duratura soddisfazione di se stessi e autentico senso di realizzazione nel corso della propria vita.
E’ fondamentale intraprendere il percorso nel Saṃkalpa ponendosi man mano le domande in maniera corretta: è ciò che voglio veramente? E’ la cosa migliore al momento per me? Ho le qualità per realizzarlo? Devo sviluppare competenze? Devo apprendere nozioni? Ho dubbi? Mi appaga? Mi nutre? Mi soddisfa? Mi rende felice?
Inoltre è importante che nel percorso si abbia a fianco qualcuno che è già avanti nel cammino, che possa dare i giusti riscontri e aiutare a non confondere lucciole per lanterne nella scelta degli intenti.