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Patanjali nel suo inestimabile “Yoga Sutra” ci offre numerosi insegnamenti in grado di permetterci di raggiungere quello che è il famoso fine dello Yoga ossia la sospensione delle modificazioni della mente che ci permettono di diventare consapevoli del nostro vero sé (che altro non è che una scintilla del sé universale).

Tra le numerosissime perle di Patanjali oggi vogliamo parlare del concetto di Santosha (uno dei famosi Nyama).

Santosha è un termine sanscrito che derivante dalla radice di due parole ossia: SAM (सं, सम्) e Tosha (तोष, तुष्, Tush). Sam significa “tutto” o “del tutto” e Tosha, “appagamento”, “soddisfazione”, “accettazione”, “essere confortevole”.  In combinazione, quindi, il termine Santosha significa “completamente contenuti con o soddisfatti, accettando e confortevole “.

Insomma, Santosha significa gioia incondizionata o contentezza senza forma e rappresenta uno stato di genuina felicità, indipendente da tutto quello che succede attorno a noi.

Ma andiamo a leggere le parole del nostro caro Patanjali…

Dobbiamo andare al secondo capitolo (o pada, il famoso Sadhana Pada) ed in particolare al sutra 42 dove troviamo: “il risultato dell’appagamento (santosha) è la felicità totale”.

Insomma, quindi, per ottenere la totale felicità in ogni situazione della vita bisogna perseguire questo completo appagamento e accontentamento.

Ma facciamo ricorso alle parole di alcuni maestri che possano spiegare molto meglio dell’autrice di tale articolo questo concetto. Ad esempio T.V.K. Desikachar (abbiamo parlato di lui in un precedente numero…) descrive il significato di Santosha come accettare quello che accade (ogni cambiamento, quindi) semplicemente accettando tutto quello che la vita ci offre e imparando da essa. Nello stesso modo bisogna imparare ad accettarci per quello che siamo.

Ed ecco le sue parole:  “Molto spesso smaniamo per vedere i risultati delle azioni, e altrettanto spesso rimaniamo delusi. Invece di disperarci, accettiamo semplicemente il modo in cui si sono svolte le cose. Questo è il vero significato di Santosha: accettare ciò che viene. Un commento agli yoga sutra dice: “Accontentarci vale più dei sedici cieli”…”.

Appagamento quindi è non solo accontentarsi di ciò che si ha, ma anche rinunciare a desiderare quello che non si ha.

Il desiderare sempre cose nuove, infatti, mette la nostra mente in uno stato di continua agitazione (le famose citta vritthi) e quindi impedisce di raggiungere stati più alti ed evoluti nel percorso dello Yoga (fino al Samadhi). E’ noto infatti quanto sia indispensabile avere la mente calma qualunque cosa accada intorno a noi in modo che essa, invece di proiettarsi all’esterno, possa proiettarsi all’interno e trovare il proprio vero sé ossia quella parte di noi che non è soggetta al cambiamento (ossia parinam in sanscrito).

Lo Yogi sa che non appena un disturbo si verifica all’interno della sua mente, occorre un’energia assai superiore per dominarlo completamente e che, sebbene esteriormente possa rapidamente svanire, sul piano intimo ed inconscio esso persiste per lungo tempo.

Ma stiamo bene attenti: con il termine appagamento non vogliamo parlare né di inerzia né di mancanza di iniziativa, bensì di una condizione mentale positiva e dinamica. Si fonda sull’indifferenza a tutte quelle gioie, comodità ed altre considerazioni di indole personale che influenzano l’umanità. Lo scopo dello Yogi è il conseguimento di quella pace che ci pone completamente al di là del dominio dell’illusione e della miseria.

A parole tutto facile, ma non è difficile capire quanto tale meta sia davvero di non semplice raggiungimento: siamo infatti chiamati a combattere contro abitudini profondamente radicate nella nostra mente e che (per chi ci crede) si sono formate attraverso il susseguirsi di innumerevoli esistenze (il karma).

Gioire senza desideri egoici di qualsiasi cosa che viene a noi, così come accettare che ci venga tolta, sentirsi pieni, sazi, soddisfatti di ciò che abbiamo, di dove ci troviamo e di come siamo, è il modo più completo che si conosca per raggiungere le più grandi ricchezze che si possono avere dalla vita.

Ma ascoltiamo un altro pensatore, Taimni, professore induista: “Soltanto quando quei desideri saranno stati eliminati, e la mente sarà divenuta perfettamente calma, conosceremo che cosa sia la vera felicità. Quella gioia sottile e costante, definita sukha, e proveniente dall’interno, è indipendente dalle circostanze esteriori e costituisce in realtà un riflesso dell’ananda, uno dei tre aspetti fondamentali del sé (Sat Cit Ananda, essenza, conoscenza e beatitudine pura)”.

Per mettere in pratica santosha bisogna prima di tutto cercare di mantenere una continua consapevolezza del momento presente: nel qui e ora, infatti, la mente è libera dai desideri, dalle paure per il futuro e dai rimpianti per il passato.

Grazie a santosha si può arrivare a percepire un sentimento di completezza e imparare a godere della felicità del preciso istante che si sta vivendo, qualsiasi cosa si possegga e qualsiasi stato d’animo si abbia.

La mente può concentrarsi solo se è libera dai desideri e dai pensieri sul passato e sul futuro, perciò grazie a questo nyama anche la pratica delle asana e della meditazione potrà divenire più profonda e completa perché saremo totalmente immersi nel momento presente, saremo l’asana che stiamo eseguendo e saremo un tutt’uno con l’oggetto della nostra meditazione.

Nel momento in cui faremo nostro questo senso di appagamento e accontentamento ci sarà concesso di raggiungere uno stato di equanimità per cui le esperienze etichettate come “buone” e “cattive” verranno viste con distacco e senza reattività dalla mente.

Santosha aiuta quindi anche a liberarci dallo stress, dalle preoccupazioni, dall’ansia e dalla tristezza con un conseguente miglioramento generale dello stato di salute e della vitalità dell’organismo.

Direi quindi di cominciare a praticare Santosha dalle piccole cose e vediamo se come al solito il nostro buon Patanjali continui ad avere ragione e ad essere per noi una solida guida nel percorso Yoga.

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