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Lo yoga, come diceva Iyengar, è una scienza pragmatica, sviluppatasi nel corso di migliaia di anni, che si occupa del benessere fisico, morale, mentale e spirituale dell’uomo nel suo insieme.

Non è una ginnastica, non è un particolare tipo esotico di stretching muscolare, non è una pratica legata alle strampalate correnti della Nuova Era.

È un universo che tocca nel profondo chi lo pratica, una via di liberazione e conoscenza.

Le origini risalgono ai testi sacri indiani, i Veda, ma il primo libro che ne codificò la pratica furono gli Yoga Sutra di Patañjâli, una raccolta di aforismi che risale al 200 a.C.

Chiamato anche Yoga Darsana, consiste in 196 versetti, che descrivono con mirabolante sintesi il significato dello yoga.

Proprio secondo questo testo, uno yogi non può che essere vegano. Perché? Il significato del termine sanscrito Asana, che noi traduciamo con postura, significa letteralmente seduta, cioè connessione alla Terra. E il termine yoga, oggi utilizzatissimo appena si fanno due movimenti (…), significa unione.

Ogni Yoga è bhakti, devozione. Quando pratichiamo le asana e simultaneamente respiriamo (attraverso il pranayama) diveniamo una preghiera in movimento. L’aspirazione di uno yogi è samadhi, cioè l’estasi, la liberazione. Perciò attraverso la preghiera in movimento offerta dalle asana collegate tra loro dal respiro, noi creiamo un’unione di corpo, mente e spirito con la Terra e ciò porta alla nostra liberazione, a samadhi. Le asana sono dunque uno straordinario strumento, come anche i mantra (nada yoga), la meditazione (dyana), lo studio dei testi sacri (sastra) e soprattutto la pratica di ahimsa, il non nuocere, il primo degli yama.

Gli yama (restrizioni, contenuti degli Yoga Sutra di Patañjâli, sono cinque: Ahimsa, Satya, Asteya, Brahmacharya, Aparigraha.

Uno yogi non deve provocare Himsa, violenza, verso nessun essere vivente. Pertanto come può uno yogi nutrirsi della sofferenza di un pesce che muore lentamente e atrocemente per soffocamento? Come può uno yogi nutrirsi della carne di un vitellino appena nato e portato via alla sua mamma? Uno yogi intraprende un percorso di verità (Satya), laddove le industrie alimentari ci presentano confezioni di prosciutto con immagini di maialini felici, laddove gli allevatori (tutti!) ingannano gli animali facendo creder loro che se ne stanno occupando amorevolmente.

Uno yogi si astiene dal rubare (Asteya), neppure il latte che è destinato ad un vitellino e che non è certamente suo. Uno yogi non abusa sessualmente degli altri esseri viventi (brahmacharya) e pertanto non può essere parte del sistema di stupri giornalieri con cui si ingravidano le mucche per continuare a produrre latte. E certamente uno yogi vive una vita felice con ciò che ha, senza avidità e senso di possesso verso gli altri, tutti gli altri (aparigraha).

Si è yoga, non si può fare yoga. Ciò che facciamo e siamo fuori dal tappetino è tanto importante quanto le due ore di pratica. Uno yogi non separa la pratica dalle proprie scelte quotidiane, tanto meno dalla scelta di come nutrire il proprio tempio, cioè il corpo o, meglio, i propri corpi.

Stefano Momentè

Autore di Lo Yoga è Vegan – Eifis Editore 2016

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