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La maggior parte delle persone pensa che lo Yoga consista in una serie di esercizi fisici per mantenere una buona salute e promuovere o recuperare il benessere. Altri hanno sentito che questo benessere fisico si può estendere anche alla mente, portando pace e rilassamento.
Queste idee di Yoga non sono sbagliate, benché incomplete, poiché la pratica prevalente in Occidente è basata soprattutto sullo Hatha Yoga, lo Yoga posturale, a discapito di altre forme di yoga come il Karma Yoga, lo Jñāna Yoga e il Bhakti Yoga, ossia le tre principali vie di liberazione presentate nella Bhagavad Gita.

Tuttavia, tale desiderata pace non si ottiene semplicemente praticando le classiche posture di Yoga. Il rapporto dello Yoga con il corpo fisico va compreso ben oltre le posizioni. Praticare lo Yoga è sviluppare un forte controllo dei sensi; è un agire consapevole secondo il dharma – l’ordine cosmico; è un chiaro posizionamento davanti alla vita e al mondo che ci circonda.
Per raggiungere uno stato di pace e gioia è necessario intraprendere una via di trasformazione di ogni aspetto della propria vita e abbracciare altre pratiche di controllo del corpo e dei sensi come moderare la lingua nel mangiare e nel parlare, imparando a comunicare in modo veritiero e non aggressivo; vedere oltre le apparenze e cercare di “acquisire una giusta visione del mondo”; raffinare la propria facoltà uditiva, per entrare in uno stato di profondo ascolto interiore; controllare le azioni, facendo delle nostre mani un veicolo per donare piuttosto che per prendere. Questi comportamenti favoriscono la compassione per tutte le creature viventi.

Lo Yoga è uno stato di unione dei nostri aspetti fisici, mentali e spirituali con lo Spirito Universale; unione del relativo con l’Assoluto. Questo stato è raggiunto dalla comprensione che ogni individuo non è separato dal Tutto ma ne è una parte intrinseca e interagente. Nelle Upanisad questo stato di non separazione si esprime con affermazioni come: Tat Tvam Asi, letteralmente “Quello sei tu”, oppure Aham brahmasmi, “Io sono l’Assoluto”.

Il Rig-veda, la più antica scrittura vedica, descrive l’Universo stesso come essere il corpo della Persona Suprema, il Virat Purusha:
La Luna nacque dalla sua mente, il Sole dai suoi occhi, dalla sua bocca vennero Indra e Agni, mentre dal suo respiro il vento è generato. Dal suo ombelico sgorgò l’Aria, dalla sua testa si dispiegò il Cielo, la Terra dai suoi piedi, dalle sue orecchie le quattro direzioni. Così sono stati organizzati i mondi.”

Nella Bhagavad Gita 8.4, Sri Krishna afferma:
“La natura fisica è nota per essere perennemente mutevole. L’universo è la forma cosmica del Signore Supremo, e Io sono quel Signore rappresentato come l’Anima Suprema, che dimora nel cuore di ogni essere incarnato.”

La vera proposta dello Yoga è realizzare l’Atman, quest’Anima Suprema che risiede nel cuore di ognuno di noi, e comprendere la propria vera essenza ontologica, definita saccidānanda: esistenza eterna, coscienza pura e beatitudine.

Un altro aspetto molto interessante della filosofia yoga sono i klesha, gli “stati di afflizione” che avvolgono l’essere umano. Patanjali, nel suo Yoga Sutra, li classifica in cinque stati principali: avidyā – ignoranza spirituale; asmitā – sentimento di individualità e separazione; rāga – attaccamento; dveśa -disgusto o repulsione; abhinivesha – volontà di vivere o paura di morire. Su quest’ultimo punto, mi viene da osservare un atteggiamento molto presente ed estremamente conflittuale in tutti noi. Allo stesso tempo in cui vorremmo godere al meglio la vita e non morire mai, ci impegniamo continuamente in abitudini distruttive come fumare, usare alcol e droghe, convivere con persone che non ci fanno stare bene e coltivare pensieri negativi di auto-denigrazione. Sembra quasi un miscuglio di amore e odio, che interagiscono in continuazione, un forte attaccamento al proprio corpo che convive con la volontà di distruggerlo, o meglio di distaccarsi da esso, nella speranza, forse inconscia, di liberazione dalle sofferenze.

Lo Yoga ci viene in aiuto insegnandoci a purificare il corpo-mente, a nutrirlo in modo sano, non solo con una dieta appropriata e salutare ma con il canto di mantra che leniscono i dolori della mente e ci fanno entrare in frequenze positive, lo studio delle scritture di conoscenza spirituale, la ritrazione dei sensi, l’osservazione di periodi di silenzio interiore.

Nonostante lo scopo ultimo di ogni pratica yogica sia ottenere il moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti (samsara), ossia liberazione dal corpo fenomenico, troviamo visioni contrastanti nelle diverse scuole di pensiero yogico, come ad esempio la scuola Vedanta e quella del Tantra.

Mentre la tradizione del Vedanta rifiuta il corpo come veicolo di liberazione, considerandolo piuttosto come la sorgente dei desideri – stimolati dall’esperienza sensoriale del mondo – che quando non soddisfatti causano sofferenza e provocano stati di squilibrio e confusione mentale come la delusione, la frustrazione che può generare l’invidia che, a sua volta, può generare la rabbia e persino l’ira, allontanando l’individuo da una coscienza di unione e armonia.

La visione tantrica, invece, crede nella liberazione pur vivendo nel corpo fisico. Il tāntrika – un iniziato nel Tantra – considera il corpo come una manifestazione microcosmica del macrocosmo, cioè il mondo in cui viviamo è nient’altro che l’espressione dell’energia divina e pertanto tutto il potenziale del corpo, compreso il desiderio, viene utilizzato al servizio della liberazione.

In un modo o nell’altro, considerandolo o meno come un veicolo di salvezza, ci troviamo comunque tutti in un corpo fisico e quello che possiamo fare è trovare il miglior modo per usarlo al fine di raggiungere i quattro scopi della vita umana: artha, kama, dharma e moksa, ossia rispettivamente ricchezza, piacere, religiosità e liberazione.

Con lo Hatha Yoga, il veicolo dell’esperienza umana, il corpo fisico, viene lavorato come un diamante grezzo che, attraverso un processo di raffinazione, raggiunge il massimo della sua purezza e brillantezza, così da far riflettere nel cuore del praticante l’ātman.

Sebbene la pratica degli Asana sia fondamentale per tenermi “in contatto” con la luce dentro di me, riconosco che senza il quinto niyama di Patanjali – Ishvara pranidhana -, l’arresa al Signore, e senza gli insegnamenti della Bhagavad gita, non si ottiene l’illuminazione neanche dopo un intenso sforzo yogico. Personalmente, senza il Bhakti Yoga la mia pratica sarebbe vuota di significato. La prospettiva di vita che ho trovato nello Yoga della devozione, cioè l’amore per Dio e tutta la sua creazione, è ciò che tocca davvero il mio cuore e mi dà l’ispirazione per andare avanti nella pratica e nella vita.

Chaitanya Mayi

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