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Da qualche tempo, la parola “karma” viene spesso utilizzata per indicare le “conseguenze meritate”, perlopiù negative, che colpiscono qualcuno che abbia compiuto azioni ritenute eticamente e/o moralmente criticabili. Si potrebbe formulare la stessa osservazione utilizzando dei termini della nostra lingua d’origine senza doversi appropriare di quelli provenienti da culture tanto lontane, evitando così di alterarne il significato, spesso riducendolo in modo inopportuno, ma è una premura cui pochi si dedicano. Nel caso specifico poi, partendo proprio da ciò che il termine “Karma” esprime, utilizzarlo senza le auspicabili accortezze è un po’ come lanciare in aria un boomerang che con un’altissima probabilità torni colpendoci in pieno.

Avviare un discorso sull’intimo senso della parola è sempre un buon punto di partenza. La parola karma, dal sanscrito कर्मन ्, karman, vuol dire “azione”. È l’atto. Il termine è legato al greco κραίνω (kràino) “fare, ottenere, portare a compimento”, e al latino creo prodotto del verbo कृ (kṛ) il cui significato è “creare”. Il karma è dunque un qualcosa che viene creato tramite l’azione. Quello che è azione è karma. Nella prassi vedica si usava il termine neutro Karman a indicare il complesso delle attività umane. La società vedica era regolata secondo principi sacri per cui il Karma indicava l’esecuzione dei rituali che servivano a ottenere la benevolenza delle divinità. Il rito era l’azione più importante svolta dal brahmano, membro della casta sacerdotale induista. Esistevano delle leggi sacre cui si doveva fare riferimento, quindi qualsiasi azione che era conforme ad esse corrispondeva ad un buon Karma, mentre ciò che era lontano da esse e dalla Legge Divina era un cattivo Karma. In tali casi il sacerdote brahmano, vedico, metteva in atto dei “riti Karman” per riparare l’atto squilibrante.

Facendo un salto in avanti nel tempo, senza soffermarci su un’analisi storica ed evolutiva del termine preso in esame, che ad oggi risulta ancora molto complessa da compiere, vediamo che quest’ultimo la cui rilevanza nel mondo vedico era totalmente svincolata dall’individuo, viene ad acquisire un’accezione diversa, legata invece all’agire umano.
L’individuo, il quale commetteva cattivo Karma, quindi azioni contrarie alla Legge Divina, portava uno squilibrio che era riparato da un sacerdote con un rito Karman, se poi vi erano leggi terrene cui fare riferimento per “punire” tali azioni, egli ne subiva gli effetti. Ciò che contava era mantenere l’armonia universale.

Quando dalla civiltà vedica si passa a forme religiose, il termine Karma viene reinterpretato all’interno del “principio di equilibrio” cui l’individuo dovrebbe tendere e si lega al conseguente principio di causa-effetto (per approfondimento critico, consiglio la lettura del testo “Dialoghi tra Viandanti” di Giorgio Rossi, cap.6 Karma Fato è Destino).

I principi del Karma, sviluppati nelle Upanisad vediche, scritture sacre fondamentali nell’Induismo, Buddhismo, Gianismo e nelle altre religioni orientali, sono strettamente correlati al concetto di Dharma, Legge Universale che governa le vite degli uomini impedendo il proliferare del caos.

Riassumendo: il Karma resta indissolubilmente legato all’agire umano, ogni azione compiuta dall’uomo è Karma, ogni azione può essere in sintonia con le Leggi Universali o in disarmonia con esse. Compiere azioni, il più eticamente e moralmente elevate partendo dalla posizione nella quale ci si trova (seguire il proprio dharma), è ciò che permette un’elevazione come essere umano terreno e spirituale. Gli effetti, a volte verificabili già in questa vita, saranno semi di un buon Karma per le vite successive.

Quale che sia la via spirituale che si sia scelto o meno di seguire, un uomo senziente e ancora capace di riconoscersi come elemento costituito da e costituente l’Universo, non può non
comprendere quanto il suo agire in pensieri, parole ed opere sia parte integrante del tutto ed abbia delle conseguenze sul tutto.
Siamo chiamati a ritrovare ove si sia perso e a mantenere saldamente ove si sia, un forte senso di responsabilità. Etica e morale sono più che semplici parole, sono uno stato dell’essere cui tendere con salda volontà. Essere, inteso come presenza.

“La consapevolezza è la via della non-morte
La distrazione è la via della morte
Chi è consapevole non muore
Chi è distratto è come fosse già morto.”
— Dhammapada 21

Si vive come reali artefici e protagonisti di ciò che accade, nel bene e nel male, quando si è vigili e il nostro agire è guidato dalla nostra volontà. Dirigere la volontà in modo responsabile ci permette di “produrre” Karma positivo e di far fronte a quello negativo.
Quando abbiamo modo di esser testimoni delle conseguenze che qualcuno subisce a seguito del suo male agire, prenderne atto come osservatore, senza giudizio, può aiutarci a comprendere le Leggi Divine, ma allo stesso tempo deve essere per noi un monito a non commettere gli stessi errori. Gioire delle malesorti altrui, per quanto queste possano considerarsi l’inevitabile risultato di precedenti azioni negative, è anch’essa un’azione, è la vostra azione…

È il vostro Karma. E di questo solo Karma dovreste preoccuparvi.
La giustizia è altra questione.

Gloria Micacchi

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2 thoughts on ““… si chiama Karma”, anche il tuo

  1. Interessante disquisizione. Osservo l’adesione agli stessi principi dei nostri proverbi:
    Chi fa per issu fa.
    Chi è bbónu è bbónu pe’ issu.
    Chi sputa per aria li recasca ‘n capu.

  2. I “nostri proverbi” hanno in loro racchiusi grandi tesori. Quanto si può ritrovare in essi di attinente a conoscenze, antiche e anche più moderne, potrebbe sorprendere i più. Dei tre, “Chi fa per issu fa!”, è quello che scelgo da tenere bene a mente.
    Grazie Michele

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