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Lo Yoga ha conosciuto in questi ultimi anni un’espansione enorme in gran parte dei paesi occidentali. Questo fatto si potrebbe leggere come un boom del fisico, visto che lo Yoga che viene proposto in Occidente molto spesso si limita al lavoro sul corpo e sul respiro. Ma anche questa sarebbe una lettura troppo parziale, perché anche uno Yoga che si rivolga principalmente al corpo fisico, aprirà delle finestre verso i corpi più sottili.

Dopo un lungo periodo di negazione del corpo nei cammini spirituali in Occidente, che potrebbe risultare da un’interpretazione parziale e dualista del binomio paolino carne e spirito, le persone in ricerca hanno sviluppato, insieme alla giusta opposizione contro la negazione del corpo, anche una diffidenza nei confronti di tutto ciò che si potrebbe classificare religioso o spirituale. Questo non significa che la ricerca spirituale sia sparita, ma piuttosto spostata in ambienti nei quali di spirituale si parla poco o, se questa riflessione è presente, viene proposta in un linguaggio nuovo che non evoca quello tradizionale, divenuto incomprensibile e che, se espressa in una lettura dogmatica e rigida, diventa anche inaccettabile per l’uomo moderno segnato dall’illuminismo.

La ricerca oggi trova risposta nello Yoga, nel tai-chi o nel chi-gong, nello sport, nello za-zen, nella mindfulness, nelle proposte di nutrizione, nell’ecologia e nella cura per il creato, nel consumo responsabile, nelle arti come la danza, la musica, la poesia e in molti altri metodi e sistemi. Molti di questi campi evitano il discorso spirituale diretto, ma tutti aprono all’esperienza di un oltre, a una dimensione relazionale di cura e a un sentirsi connessi, radicati, uniti.

Il lavoro più fisico ed esperienziale diventa così la piattaforma che rimanda a un’altra dimensione della nostra esistenza, processo che viene già riconosciuto ed evocato nel testo Haṭha-yoga-pradīpikā (HPT I,1; I,3): lo haṭha-yoga, cioè la parte più fisica dello Yoga, apre all’esperienza della meditazione (rāja-yoga) e l’esperienza meditativa rimanda a sua volta al bisogno di un’adeguata preparazione fisica. In una proposta spirituale seria, le due dimensioni rimangono sempre collegate tra di loro e si sostengono a vicenda.

Questo non desta una grande meraviglia, visto che anche l’approccio antropologico più materialista riconosce che l’essere umano non si limita alla sola dimensione fisica. La tradizione culturale occidentale parla di anima, psiche, mente, intelletto, coscienza, emozioni, intuizione, sapienza ecc. Il modello classico antropologico che ancora oggi sottende in maniera esplicita o implicita a molte riflessioni sull’uomo e sulla donna, è quello dell’antichità greca che riconosce nell’essere umano tre aspetti: il corpo (sōma), l’anima (psychē) e l’intelletto (nous). A partire da questa ripartizione tripartita San Paolo sviluppa una versione cristiana, distinguendo corpo (sōma), anima (psychē) e spirito (pneuma), per esprimere un’idea di fondo simile: l’essere umano non è solo composto da un corpo e da una dimensione mentale, ma viene riconosciuta all’interno della dimensione mentale la differenziazione tra una mente più concreta, discorsiva, emotiva, in movimento (psychē), manas per gli orientali,  e una dimensione più stabile, più in grado di discernimento, più sapiente, più stabile e, in una lettura religiosa, aperta al dialogo con l’Oltre, capace di auto-trascendenza, cioè capax Dei (nous o pneuma) che in oriente viene chiamata buddhi. Non bisogna troppo legarsi ai singoli termini: basta, infatti, un veloce sguardo a questi termini nelle varie lingue europee per comprendere che non c’è niente di assoluto e di precisamente determinato in queste parole e che l’idea di fondo rimane la stessa. L’uomo e la donna non sono esseri meramente materiali, siamo composti da strati più sottili e anche la dimensione interiore è composta da varie stratificazioni di cui la più sottile è dotata di conoscenza, di discernimento, di sapienza e, per chi si riferisce a una dimensione che oltrepassa la mera esistenza temporale, in grado di entrare in un dialogo con Dio.

L’Oriente, e più precisisamente la tradizione del Vedanta[1], propone una mappatura antropologica simile, parlando dei vari strati dell’esistenza umana, riferendosi ai cosiddetti kośa, gli involucri o veli. L’essere umano è composto da varie stratificazioni, di cui quella più esterna e grossolana è annamaya-kośa, letteralmente lo strato composto dal cibo, il corpo fisico, concreto, tangibile. Lo strato a seguire, più sottile, composto da prāṅa, energia, è, appunto, prāṇamaya-kośa, il corpo energetico. Poi c’è l’involucro della mente inferiore o discorsiva manomaya-kośa, quello che viene determinato appunto da manas, quello della mente superiore vijñānamaya-kośa (determinato da buddhi) e quello della beatitudine ānandamaya-kośa. Tutti e cinque vengono letti come involucri sempre più sottili del vero Sé, l’ātman, un nucleo centrale eterno e divino, quella dimensione che San Paolo chiamo lo spirito e, non a caso, la parola spirito ha a che fare con il respiro, come anche la parola greca pneuma, mentre la parola ātman ha delle assonanze etimologiche con la parola tedesca atmen, cioè respirare. L’idea di fondo è che gli strati più grossolani vengono determinati e formati, nel senso più originale della parola, dagli strati più sottili. In questa mappatura antropologica, la ricerca spirituale consiste in un continuo affinamento della nostra percezione che ci permette di renderci conto anche degli strati più sottili, in un successivo affidare lo strato più grossolano a quello più sottile e in un processo di dis-identificazione dagli strati più grossolani a favore di una crescente consapevolezza del nostro vero Sé.

Cosa questo ci vuole dire in concreto? La pratica dello Yoga innanzitutto non è qualcosa che si ferma al solo corpo fisico, tiene in considerazione anche la parte mentale e la parte spirituale della nostra esistenza, anzi, riconosce a questi strati più sottili un’importanza determinante. Ma tutti gli strati sono collegati fra di loro e si influenzano e completano a vicenda. Nella pratica dello Yoga il lavoro fatto sul livello fisico rimanda ai livelli più profondi, affina la consapevolezza, prepara il corpo fisico ed energetico all’esperienza della Meditazione, cioè al superamento della mente discorsiva, in vista di una piena consapevolezza della nostra natura divina ed eterna.

Ma i primi passi possono avvenire anche a partire da livelli più mentali e/o spirituali: ciascuno inizierà il cammino dagli strati che più chiamano l’attenzione o verso i quali esiste già una certa affinità. Ogni strato rimanderà a un suo completamento agli altri livelli, in modo che i veli possano successivamente sollevarsi per rivelare il nostro vero Sé. La pratica più fisica, il lavoro con le posizioni (āsana) ci farà scoprire lentamente la necessità di un progressivo abbandono al respiro, al prāṅa. L’idea di fondo in un praticante avanzato non è più di muovere il corpo e di portarlo in determinate posizioni, ma di muovere il prāṅa e di lasciare che il corpo segua il flusso del respiro. Si tratta di un abbandono del corpo fisico a quello energetico, un permettere che annamaya-kośa sia determinato dallo strato più sottile prāṇamaya-kośa. Il corpo, in questo modo, diventa il veicolo attraverso il quale possiamo sperimentare, in maniera molto concreta, l’importanza di lasciarlo andare, di affidarlo a qualcosa di più intimo e sottile. Il lavoro sul corpo paradossalmente ci insegna la necessità di superarlo.

Nella meditazione troviamo processi simili. Quando ci sediamo sul nostro cuscino, chiudiamo gli occhi e ci rivolgiamo verso l’interno, molto spesso ci troviamo non in uno spazio di beatitudine divina, ma di fronte alla nostra irrequietezza mentale. Il primo passo poi, nei diversi metodi di meditazione, è quello di assumere l’atteggiamento di un osservatore esterno che guarda i movimenti della mente senza giudicare. In questo modo introduciamo nel campo mentale una nuova dimensione, più distaccata, più tranquilla e mano a mano che cresciamo nella consapevolezza che anche questa fa parte della nostra mente, sviluppiamo una possibilità di scelta di identificarci con la mente irrequieta che non riesce a tacere o con quell’altra dimensione calma e serena. Se riprendiamo l’idea dei kośa, si tratta di un passaggio da manomaya-kośa a vijñānamaya-kośa, dalla mente discorsiva a quella superiore, dalla psychē al nous. Lo sviluppo di questa capacità di decentramento, di dis-identificazione con gli strati più grossolani della nostra esistenza a favore degli strati più sottili, di una crescente consapevolezza della nostra vera natura è, forse, l’elemento più incisivo nei processi di guarigione e di trasformazione che lo Yoga vuole innescare: non sono solo il mio corpo, non sono solo le mie emozioni, non sono solo i miei pensieri, ma sono molto più di questo, il centro della mia esistenza è un nucleo tranquillo, stabile, eterno, divino che non viene compromesso da niente e da nessuno. Questa consapevolezza mi dà sicurezza, tranquillità, fiducia e mi permette di affrontare gli eventi della mia vita con distacco e equanimità. Il lavoro sul corpo nello Yoga costituisce spesso il primo tassello in questo processo che poi si apre a scoperte inaudite, ci offre la possibilità di sviluppare una consapevolezza degli strati più sottili che compongo la nostra esistenza, impariamo in maniera molto concreta la capacità di affidare ogni strato del nostro essere alle dimensioni sempre più sottili, fino a lasciar andare l’ultimo velo per scoprire che siamo esseri divini.

Axel Bayer

Monaco benedettino di Camaldoli e insegnante yoga H.Y.I.

[1] la trattazione probabilmente più antica di questo aspetto si trova nella Taittirīya-Upaniṣad II, 2-5.

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