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C’è un aspetto fondamentale dello Yoga che vale la pena approfondire in tutte le sfumature possibili consentite dall’apertura a cui ci doniamo ad esso. Si tratta del bhav (o bhava) ovvero l’atteggiamento giusto, lo stato d’essere o auto-manifestazione psicologica che distingue nettamente e senza possibilità di dubbi una pratica sportiva o ginnica da una sessione di Yoga. E che, soprattutto, consente di cogliere davvero l’essenza evolutiva, risanante, universale insita nella “corretta” pratica yogica.
Qual è questo giusto atteggiamento?
I maestri e i Rishi rispondono senza esitare: l’atteggiamento spirituale. Spirituale sta per qualcosa di molto espanso e vitale che va ben oltre la religione e che può essere avvicinato da chiunque, non è una predisposizione mistica riservata a pochi eletti, anzi. Ha a che vedere con la nostra vera natura.

“Ogni Yoga è per sua natura, una nuova nascita” – afferma Sri Aurobindo, un risveglio alla nostra essenza che possiamo contattare e fare emergere in qualsiasi momento.

Nel linguaggio figurato si dice “avere lo spirito giusto” alludendo proprio a quel qualcosa che in un certo senso predispone bene e, non diversamente, la parola entusiasmo (dal greco En Theos cioè “In Dio”) ci indica in che proporzione qualitativa la nostra vitalità è collegata allo “stare in dio”, ovvero, essere in contatto con le qualità divine in noi, qualcosa di intimamente benefico e rigenerante, inclusivo, espansivo, accogliente, ispirante, pacifico e rilassante, sensibile, silenzioso, spazioso. Dunque, il bhav dello Yoga ci sta suggerendo di aprirci a qualcosa di più ampio, di sentirci compartecipi di un potere infinitamente più grande, di predisporci alla Verità non intellegibile che qualcosa di intimo e profondo accada (anche) mediante il lavoro corporale delle posture (asana).

Questa è la premessa fondativa di qualsiasi pratica che voglia definirsi Yoga. Niente tecnica fine a sé stessa, dunque, nemmeno posizioni eseguite perfettamente, bensì prima di tutto, la posizione interiore corretta, bhav. L’accento cade inesorabilmente sul modo in cui si entra nelle posture, il modo in cui si tiene la mente durante l’intera pratica, la consapevolezza di ritornare al proprio centro interiore più profondo, il modo stesso in cui ci si appresta a “praticare lo Yoga”.

“La base di ogni vero progresso è il giusto atteggiamento. Quando l’atteggiamento è giusto, ogni altra cosa andrà a posto da sola, spontaneamente” – scrive Kriyananda nel libro Raja Yoga.

Quando lo stato di coscienza o bhav è forte, tutto il proprio essere autentico sostiene l’intuizione primaria di essere uniti a qualcosa di più grande e potente che permea l’intero universo ed emana dal nostro sole centrale: il cuore spirituale. Entrare in contatto con questo centro, unirsi ad esso è l’unico vero scopo dello Yoga.

ASANA NON COME POSIZIONE MA MODELLO POSTURALE

In virtù di tutto ciò, la postura regale dello Yoga, la prima e forse l’unica a cui concedere la massima devozione e cura, è quella interiore. Il termine stesso asana, tradotto come “posizione” nei manuali occidentali, ha una sfumatura molto diversa nei testi più antichi e originali dello Yoga: ci si riferisce più a una postura, un posizionamento, uno stare e un “come stare”, una “posizione” dunque riferita più al piano mentale, o meglio di consapevolezza (aspetto del bhav), che fisico; quest’ultimo, infatti, sarebbe una conseguenza.

Interiorizzarsi, schiudersi a una disponibilità di ascolto ricettivo e aperto, stare in un’apertura a tutto ciò che accade lasciando che accada senza interporre giudizi, paragoni etc. (posizione equanime del Testimone), lasciarsi spazio, darsi la possibilità di ricevere, accogliere in apertura e rilassatezza, lasciarsi andare depotenziando la presa della volontà personale…
Eccolo, il sacro Bhav, la Postura Regale come a me piace definirla!

MAHAHRADANUSAMDHANA, IL “SENTIMENTO OCEANICO”

Torniamo ai maestri dello Yoga.

Il rilassamento dello sforzo e l’incontro con l’infinito” viene evocato negli Yoga Sutra di Patanjali come metodo per ottenere “stabilità e comodità” nella postura (sthirasukham asanam) che è l’aforisma precedente nel quale si danno precise coordinate su cosa contraddistingue una posizione Yoga affinché possa definirsi tale.
Possiamo notare che l’atteggiamento giusto (bhav) è propedeutico alla postura corretta: l’abbandono di ogni sforzo e la contemplazione dell’infinito citati da Patanjali suggeriscono più un modo di porsi che qualcosa da fare. L’attitudine adeguata (a livello interiore, psichico) è il preliminare indispensabile per la fioritura della pratica anche a livello fisico.

Credo sia un punto di fondamentale importanza per ogni praticante sincero dello Yoga e ancor più per chi insegna e trasmette lo Yoga ai neofiti. L’enfasi eccessiva sulle posizioni finali corrette senza tenere conto di tale terreno attitudinale, non solo è fuorviante, ma anche dannoso ai fini dell’ottenimento di quell’armonia che è insita nell’essenza dello Yoga. Sforzarsi per raggiungere una posizione che in quel momento non è adeguata alle circostanze fisiche del proprio corpo, puntare sul mantenimento a oltranza dell’asana creando magari contrazioni e tensioni a livello fisico e mentale, ha poco valore nei termini di una pratica yogica coerente nei suoi principi essenziali, basilari, sostanzialmente spirituali. In caso contrario, si sta promuovendo un altro tipo di lavoro corporale che ha principi totalmente differenti, ed è giusto chiamarla con il proprio nome: fitness.

Nell’etica yogica la non violenza, ahimsa, è un cardine da applicare in ogni sfumatura, anche riguardo al corpo fisico, nostro veicolo di trasfigurazione. L’atteggiamento non violento, gentile e sensibile alle risposte del corpo durante la pratica, è più yogico di un’attitudine competitiva che vuole ottenere risultati esteriori visibili subito non curando lo stato d’animo interiore.

Non si tratta di eseguire posizioni perfette, ma di “precipitare nell’incontro oceanico con l’infinito”, potersi abbandonare in un atteggiamento ricettivo di ascolto dove il sentire ha più valore del fare, dove si produce lo slittamento da una coscienza focalizzata sull’esterno e sulla fattualità a una coscienza più interiorizzata che ci mette in contatto (unione) con l’essere. Non fare posizioni, ma essere Yoga in tutta la durata dell’esperienza.
Un altro modo per dirlo: non dobbiamo fare bene le posizioni, ma sono le posizioni che devono fare bene a noi!

Il bhav yogico, inoltre, è oltremodo benefico in sé stesso. È il terreno che consente lo sviluppo di processi di guarigione naturale molto profondi: in questa disposizione di accoglienza e di permissività abbandonata, di rilassamento più che di sforzo, il corpo-mente si depura in modo spontaneo e tutto ciò che accade durante la pratica, avviene come un processo naturale di purificazione.

Lasciamo parlare nuovamente i maestri:

“Non è esagerato affermare che, in ultima analisi, l’atteggiamento è tutto” – scrive Kriyananda. “Anche senza conoscere nulla dello Yoga o della meditazione, con il giusto atteggiamento si raggiungerà infine Dio. Al contrario, senza un retto comportamento, un’intera vita di pratiche yogiche potrebbe sviluppare nient’altro che l’orgoglio spirituale, e dunque una concentrazione delle proprie energie all’esterno.”

E ancora:

“È consigliabile coltivare un sentimento «oceanico» (mahahradanusamdhana), che consiste nel percepire sé stessi come un’increspatura o una goccia d’acqua nel vasto oceano dell’essere, durante il mantenimento dell’asana. Questo servirà a rilassare l’intero corpo e la mente, lasciando cadere ogni sforzo volontario: in altre parole, viene eliminata ogni tensione nei muscoli, nei legamenti delle giunture e nei tendini.” (Anatomia e Fisiologia delle tecniche Yoga, M.M. Gore)

“Chi sceglie l’infinito, è stato scelto dall’Infinito” (Sri Aurobindo)

COME FAR EMERGERE IL BHAV

Come si ottiene questa attitudine così benefica che sembra essere insieme supporto e meta ultima dello Yoga? Proviamo con alcune tracce, ricordandoci però che l’interiorità non contempla rigide mappe metodologiche ma sconfinati spazi in cui dilatarsi con pienezza e saggezza infiniti.

Chiudere gli occhi è un semplice gesto che già può indicare la direzione che vogliamo prenda la nostra pratica: interiorizzazione, ascolto profondo, non dispersione energetica, contemplazione ricettiva. È un simbolo che agisce però anche a livelli profondi sul piano fisico: indica un preludio al rilassamento (si chiude gli occhi quando si dorme) e insieme all’unione con la visione interiore andando a stimolare centri di energia sottile solitamente dormienti a causa della nostra vista troppo “esteriorizzata” (Ajna chakra e tutte le ripercussioni sull’ipofisi e la ghiandola pineale).
Rientra nel bhav la capacità di interiorizzarsi, assumere uno sguardo contemplativo, “ritirato”, da non confondere però con un isolamento auto-referenziale o un atteggiamento separativo.
Abbiamo visto che l’attitudine spirituale è di espansione non di chiusura, un senso più ampio e impersonale dell’essenziale unità di tutta la vita.

Percepirsi maggiormente come spaziosità utilizzando la sensibilità corporea, sospendendo le visualizzazioni o concentrazioni mentali prolungate. Tale ritorno alla percezione tattile del corpo sposta il focus della nostra attenzione dal piano delle astrazioni mentali dispersive al piano della Presenza. Il corpo è uno dei “rifugi” di cui parla il Buddha, insieme al Respiro e allo Spazio della Consapevolezza silenziosa.
Un buon allenamento è imparare ad ascoltare con la massima attenzione: il respiro che fluisce spontaneamente, le sensazioni che il corpo produce spontaneamente. Scendere nel corpo, abitarlo, essere attenti a tutte le risposte del corpo a qualsiasi percezione venga colta.
Questo sentire non va verso il fuori ma verso il dentro, è un’attenzione che si allinea con il presente. Il senso dell’io personale, grazie all’ascolto, dovrebbe a poco a poco dissolversi.

“Si rimanga rilassati senza pensare,
ma non si interrompa il flusso dei pensieri
che sorgono come lampi nel cielo.
Così le rappresentazioni mentali
vengano lasciate libere
come nelle profondità del vasto oceano”.
(Ma gcig Lab sgron, Canti spirituali)

Sostenuti da questo bhav, come fossimo tra le braccia dell’Infinito anche se ancora non dovessimo essere colti da un fremito mistico d’esistenza, ci prendiamo cura di sentire, sentire, sentire, sentirci… Come se qualcuno ci chiedesse a ogni istante mentre assumiamo la postura (asana): “Come stai? Come ti senti?” e noi dovessimo dare risposte precise, frutto di un ascolto profondo.

Lo Yoga è l’arte dell’ascolto e l’ascolto in una attitudine rilassata e vigile “abbandonata all’infinito” è il bhav che rende la pratica yogica molto ben distinta da una pratica ginnica o sportiva. In ultima sostanza, è una meditazione ininterrotta sull’Assoluto che dimora nel tabernacolo del nostro veicolo fisico corporale.

Visto il periodo natalizio appena trascorso, concludo con questa affermazione di Yogananda in perfetta risonanza con il “sentimento oceanico” che il tema di questo articolo ha voluto poeticamente evocare.

“La vera celebrazione del Natale consiste nella realizzazione interiore della coscienza cristica. È di vitale importanza che ogni essere umano, a qualunque religione appartenga, sperimenti dentro di sé questa “nascita” del Cristo universale. L’universo è il corpo del Cristo: presente in esso, ovunque e senza limiti, è la coscienza cristica.

Quando riuscirai a chiudere gli occhi e a espandere la tua coscienza nella meditazione fino a sentire che l’intero universo è il tuo corpo, il Cristo è nato in te. Saprai, allora, che la tua mente è una piccola onda di quell’oceano di coscienza cosmica in cui il Cristo dimora”.

Cecilia Martino

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