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Al di là delle credenze new age il concetto di karma proviene dalla tradizione ascetica del jainismo, una delle più antiche religioni indiane, precedente sia alla scrittura dei Veda1, sia al buddhismo.

Il jainismo, al pari del buddhismo, è una religione – o filosofia – ateistica in quanto nega l’esistenza di un essere supremo e di una realtà trascendente.

Non contemplando l’esistenza di un Essere supremo al di là della natura, il jainismo non riconosce l’autorità dei Veda come testi composti dalla divinità, ragion per cui viene inserito, dall’ortodossia brahmanica, trai lignaggi nāstika2, cioè tra le scuole considerate eterodosse o eretiche.

Approfondire gli insegnamenti jainisti sul karma credo sia molto utile, per noi insegnanti e praticanti di yoga – parola, per inciso, che nel jainismo significa azione – in quanto ci renderemo conto che la maggior parte delle attuali credenze sullo Yoga, dalla catena delle rinascite, alla possibilità di evoluzione spirituale attraverso un certo numero di stadi, fino agli yama e ai niyama di Patañjali derivano da questa antichissima religione indiana considerata più antica sia del buddhismo, sia del brahmanesimo. Il mettere in chiaro la paternità di queste credenze ci porta a svelare una contraddizione insita in molti degli attuali insegnamenti sullo Yoga: nella maggior parte dei casi inseriamo i concetti nati nell’ambito di una filosofia eminentemente atea e materialista – tutto è sostanza nell’Universo jaina e non esistono né un dio creatore, né un paradiso eterno al di là della manifestazione – in un sistema teistico dominato da un ente immortale, onnipotente e onniscente. Prima o poi, per chiunque consideri lo yoga un percorso di ricerca del Sé, queste visioni contrapposte rischieranno di entrare in conflitto, generando dubbio, sfiducia e delusione. Contestualizzare gli insegnamenti e non dare mai niente per scontato secondo me, è la via maestra per la conoscenza, e coltivare il dubbio assiduo, essendo la Vita l’unica certezza, per un ricercatore sincero è l’unica possibilità di crescita e progresso spirituale.

Il Dharma e il Karma secondo il jainismo

Per il Jaina l’universo è infinito, eterno ed “increato” ed è composto da sei sostanze:

  • Dharmāstikāya che significa “corpo” – kaya – “esistente” – asti – del “movimento” – dharma – (per fare un esempio: l’acqua è il “corpo esistente” del movimento dei pesci);
  • Adharmāstikāya, che significa “corpo esistente del non movimento” ovvero del “riposo” (per fare un esempio: l’ombra dell’albero è il “corpo esistente” – causa passiva” – del riposo del viandante);
  • Ākāśa, ovvero lo spazio;
  • Kāla, ovvero il tempo (ma la parola indica anche il colore scuro, nero o blu, e il destino;
  • Pudgala, ovvero la materia intesa come tutto ciò che ha la capacità di sciogliersi e coagularsi in una forma percepibile dai sensi. La persona fisica ad esempio è pugdala, in quanto ha una forma specifica e riconoscibile tramite tutti e cinque i sensi;
  • Jīva, ovvero l’anima inteso come sostanza che incarna il principio cosciente e le caratteristiche intellettuali e caratteriali dell’individuo.

Dharma in altre parole ha il significato di movimento ed il movimento corrisponde alla “Ritmo universale” collegato alla natura intrinseca di ogni sostanza.

Tra le sei sostanze che compongono l’Universo solo il Jīva è senziente, ed è dotato di “quattro perfezioni” ovvero: –

  • darśana (visione);
  • jñāna (conoscenza),
  • sukha (godimento),
  • vidyā (strumento di conoscenza).

Il movimento – dharma – di per sé genera un ulteriore sostanza che viene definita karma.

Il karma è assimilabile ad una polvere che si attacca all’anima assumendo un colore (leśyā) diverso a seconda dei contenuti mentali e delle intenzioni con cui tali azioni vengono compiute. In un testo che, secondo i jainisti, risalirebbe almeno in parte gli insegnamenti del VI secolo a.C. –Uttarādhyayana sūtra (34.3) – si parla di sei categorie principali di leśyā rappresentate da sei colori:

  • nero;
  • blu;
  • grigio;
  • giallo;
  • rosso;
  • bianco.

Il nero, il blu e il grigio sono leśyā infausti, mentre il giallo, il rosso e il bianco sono leśyā di buon auspicio.

Per illustrare gli effetti leśyā sulle tendenze degli esseri viventi nel jainismo si fa l’esempio di sei persone che cercano di raccogliere i frutti un melo rosa (jambu):

  • il primo (nero) cerca di tagliare l’albero con un’ascia;
  • il secondo (blu) vuole tagliare i rami;
  • il terzo (grigio), vuole strappare solo i rametti da cui pendono i frutti maturi;
  • il quarto (rosso) si arrampica sull’albero per cogliere i frutti;
  • il quinto (giallo) prende solo i frutti che può raggiungere da terra.
  • Il sesto (bianco) raccoglie solo i frutti che sono caduti.

Queste colorazioni sono da considerare delle tendenze inconsce che possono attivarsi o meno, accompagnando l’anima durante la trasmigrazione – saṃsāra – in uno dei mondi di cui è composto l’Universo, eterno ed increato, rappresentato in forma antropomorfa.

Rappresentazione dei “colori dell’anima” secondo i Jaina. Fonte: Wikipedia

L’Universo, denominato puruṣa, è diviso in tre parti: gambe, tronco e testa.

Nelle gambe risiedono i sette mondi inferiori, abitati da demoni e creature mostruose;

Nel tronco gli esseri umani, che abitano nella terra chiamata Bharata (nome attuale dell’India) e gli altri popoli del mondo di mezzo, al centro del quale sorge il monte Meru.

Nella testa gli dèi e gli esseri umani illuminati.

Poiché tutto, secondo il jainismo, è sottoposto alla legge della mutazione, pariṇāma, non esistono condizioni immutabili: un eroe può rinascere demone, un re formica ed un assassino, una volta libero dalle emozioni negative, può giungere al paradiso degli dèi, perché tutto dipende dalla colorazione dell’anima (leśyā) data dal karma, ovvero la sostanza che viene accumulata vivendo, e dalle intenzioni delle nostre azioni.

L’anima è quindi schiava del karma, che viene generato da cinque cause, ovvero:

  • kaṣāya (passioni);
  • yoga (che nel jainismo significa azione),
  • pramāda (incuria ed incostanza);
  • avirati (incontinenza, mancanza di controllo della mente e dei sensi);
  • mithyādarśana (errata credenza).
Lokapuruṣa (uomo cosmico). Inchiostro ad acqua e oro (da un manoscritto Samghayanarayana del XVI secolo). Fonte: Wikipedia

Poiché la “colorazione dell’anima” dipende in special modo dalle passioni, nelle pratiche di purificazione jaina si dedica particolare attenzione al riconoscimento delle passioni o emozioni negative, e alla loro “integrazione” con i loro corrispettivi positivi.

Le passioni negative sono quattro:

  1. krodha (rabbia e avversione);
  2. māna (orgoglio e presunzione);
  3. māyā (inganno);
  4. lobha (avidità).

Le passioni positive sono invece:

  1. kṣānti (tolleranza);
  2. mardava (umiltà)
  3. ārjava (sincerità);
  4. antoṣa (accontentarsi).

Per i jainisti la trasformazione delle passioni negative in passioni positive porta ad una trasformazione del “colore dell’anima” e predispone a rinascite positive, ma non serve ad uscire dalla catena delle rinascite.

L’unica possibilità è quella di purificarsi dal karma, seguendo una via ascetica a quattordici stadi caratterizzata da una serie di “voti” religiosi, i principali dei quali sono i cinque “vrata”, assai familiari a coloro che conoscono gli aforismi di Patañjali:

  1. Ahiṃsā (non violenza);
  2. Satya (verità);
  3. Asteya (non prendere ciò che non è necessario, non rubare);
  4. Brahmacarya (continenza, astinenza)
  5. Aparigraha (non possesso, non attaccamento).

Ahiṃsā è, nel jainismo come in tutte le religioni indiane, un concetto assai elastico: uccidere un essere vivente è normale, anzi è azione positiva per un guerriero o un re, ma un monaco arriva a non camminare per non calpestare i piccoli insetti e a non mangiare, morendo alla fine di inedia, per non uccidere i microorganismi presenti nella verdura, unico cibo permesso in genere a chi si inoltra nella via ascetica.

In base alla colorazione dell’anima (nera, blu, grigia, rossa, gialla o bianca), il Jīva, può rinascere in uno dei quattro stati di esistenza definiti gati, ovvero:

  1. Deva (semidei);
  2. Manuṣya (esseri umani);
  3. Nāraki (esseri infernali);
  4. Tiryañca (piante, animali e microrganismi).

Tutto è determinato dal karma, e non c’è nessuna possibilità di modificare gli effetti del karma, che rappresenta il motore stesso della vita e della civiltà. L’uomo nel jainismo è completamente libero e indipendente, in quanto nulla, né dio, né profeta, né illuminato, può interferire nelle azioni compiute dall’individuo e nei frutti che ne derivano. L’anima è padrona di sé stessa ed è responsabile delle azioni e delle intenzioni dell’individuo per cui tutto ciò che ci accade in una vita è l’effetto dei pensieri e dei gesti della vita precedente e l’unica cosa che possa fare l’essere umano è quella di accettare il proprio karma è viverlo fino in fondo.

Poiché il dharma – movimento – è una delle sostanze fondamentali dell’universo e il movimento genera la polvere del karma non vi è nessuna possibilità di uscire dalla catena delle rinascite.

Un re buono e onesto rinascerà re o assurgerà al mondo dei deva, ma basta un’azione che genera karma negativa per colorare di scuro la sua anima e farlo rinascere demone, o formica.

L’unica possibilità è quella di intraprendere un lunghissimo percorso di purificazione che porta a non accumulare la polvere del karma, un percorso che conduce all’immobilità, al distacco totale dei sensi e alla morte per inedia.

Un percorso che parte dal controllo cosciente di Corpo (gesto), Parola (linguaggio) e Mente (pensiero) e passando attraverso una serie di pratiche di purificazione e meditazione conduce a samvara (interruzione del flusso di nuova polvere karmica), e a nirjarā (dissoluzione dei frutti del karma precedente). Una volta terminato il percorso di purificazione il praticante diviene arihant, che potremmo tradurre con “maestro del mondo”, e, poiché è dotato di un corpo fisico può insegnare la via della perfezione, in seguito diviene siddha, e l’anima liberata viene accolta in luogo dell’universo detto siddhaśilā (सिद्धशिला), posto nella testa del puruṣa, completamente inaccessabile agli esseri umani.

Paolo Proietti

Bibliografia

1 Vedi: Jambuvijaya, Muni (2002), Piotr Balcerowicz e Marek Mejor (a cura di), Saggi in filosofia e religione Jaina , Motilal Banarsidass, ISBN 978-81-208-1977-1

2 Con il termine nāstika (नास्तिक) si indicano i sistemi della filosofia indiana che non accettano l’autorità vedica. Ovvero il Bauddha (buddhismo), il Jaina e il Cārvāka (materialismo). Āstika nāstika sono le due grandi divisioni della filosofia indiana. Secondo Pāṇini, āstika è “colui che crede nell’altro mondo”, nāstika è “colui che non crede nell’altro mondo” e daiṣṭika è un “determinista” o “fatalista”, ovvero colui che crede in un destino immutabile.

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