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Non so voi, ma da quando il covid è più o meno finito, ho notato l’irrefrenabile necessità del mondo di correre. Non lo so se il mondo lo desideri veramente. Di correre, intendo. Ma di fatto è quello che fa. Corre, molto più velocemente di prima.

Anche le persone che vengono a yoga da me lo confermano: sentono che il loro tempo sfugge dalle mani molto più rapidamente di qualche anno fa. Cavallette che saltellano da un impegno all’altro come su steli d’erba fresca. E’ uno zapping infinito, dove per la maggior parte delle volte ci perdiamo quello che c’è tra un impegno e l’altro, tra uno stelo e l’altro, tra un salto e l’altro. Come se esistessimo veramente solo quando facciamo qualcosa, quando siamo impegno e azione. Il resto non conta. Almeno, è quello che crediamo. Crediamo che per sentirci bene, per sentirci vivi, dobbiamo fare.

E allora riempiamo il nostro tempo: alcune azioni sono utili, altre un po’ meno. Ci regaliamo corsi di bricolage o di pittura per espandere la nostra creatività o workshop di cucina per imparare a bilanciare gli alimenti e mangiare in modo più sano. Accettiamo un nuovo ruolo a lavoro, anche se non sempre è accompagnato da un conseguente aumento remunerativo. Prenotiamo viaggi che non abbiamo mai fatto, ma sempre desiderato. Corriamo o andiamo alla lezione di pilates nella pausa pranzo perchè è l’unico ‘buco’ che abbiamo durante la nostra giornata, che non sia occupato da altre attività. Le lezioni di yoga, al mio studio, sono così affollate durante la pausa pranzo, molto più che in altri anni. E così, anzichè consumare un pasto caldo e rilassarci durante quella che è una delle attività più importanti per il nostro organismo (il pranzo, appunto), facciamo cose. E ci sentiamo vivi, o almeno, è quello che ci sembra. Di sentirci vivi ed emozionati.

Ma è probabile che dopo un po’ di tempo, ciò che sembrava averci così emozionato, finisca per annoiarci o non darci più quell’entusiamo che ci sembrava all’inizio. Cerchiamo sempre la felicità fuori da noi, lontano dal nostro dentro. Facciamo cose per riempirci, senza sapere che – invece – così facendo, ci consumiamo.

La saggezza dell’Ayurveda ci insegna che, laddove c’è movimento, spesso violento, spesso eccessivo, la nostra dimensione fisica si disperde, le nostre energie vengono emesse all’esterno, facendoci diventare sempre più aridi. Come quando strofiniamo una gomma su un foglio di carta: noi siamo la gomma che si muove, fa cose. Quello sfregamento continuo toglie materia dal nostro noi: anziché aggiungere, come crediamo, toglie. E, così, parti di noi si disperdono nello spazio, come i trucioli della gomma che rimangono sul foglio.

Il nostro Cuore diventa secco e rigido. Nel continuare a muoverci verso l’esterno, riempiendo la nostra vita di azioni, il nostro Cuore si spegne. E magari ci svegliamo un giorno, ci guardiamo allo specchio e ci sentiamo vuoti, come se non fossimo più capaci di provare alcunchè. Vata, l’energia formata dai principi di Askash (spazio) e Vayu (aria), ha preso il sopravvento sul nostro corpo e sulla nostra mente.

Abbiamo riempito il nostro tempo, ma non sempre ci siamo ascoltati. Abbiamo davvero fatto qualcosa veramente solo per noi, per nutrire il nostro Cuore? Sappiamo cosa nutre il nostro Cuore? Perché solo quando il nostro Cuore sarà nutrito e veramente espanso, solo allora, potremo sentire la connessione profonda che cerchiamo ogni volta che srotoliamo il tappetino per fare yoga.

Passiamo tutta la giornata a fare cose frenetiche, a dare giudizi sui nostri colleghi, i nostri vicini di casa; giudichiamo pure chi – costretto nell’abitacolo della sua auto – è incolonnato nel traffico insieme a noi. Andiamo di fretta, muriamo il nostro cuore per non farci toccare dagli altri e, srotolato il tappetino alla classe di yoga, pretendiamo di sentire Dio, dentro di Noi, di riconnetterci con il nostro respiro, con la nostra intimità. Ma cosa abbiamo fatto durante la giornata per prepararci a questo? Abbiamo nutrito il nostro Cuore con Amore, gratitudine, respiro?

E che a volte pensiamo di nutrire il nostro Cuore, ma non lo stiamo facendo veramente. Per nutrire il Cuore serve quel tempo prezioso che dedichiamo all’ascolto, anzichè al ‘fare’. Soprattutto perché l’ascolto ci permette di comprendere ciò che – davvero – nutre il nostro Cuore, senza andare allo sbaraglio, magari rimpinzandoci di attività senza motivo, solo perché qualcuno ci ha detto che ‘sembra facciano bene’. E’ molto difficile ascoltarci, spesso preferiamo che sia qualcun altro a dirci cosa fare. Mai una volta che ci mettiamo le cuffie nelle orecchie e ascoltiamo la nostra, di frequenza, invece di quello che passa per caso alla radio, tra un notiziario catastrofico e la canzone di qualche autore popolare. Molto spesso, la cosa più grave è che non sappiamo neppure di averla una frequenza.

Nutrire il nostro Cuore, però, è l’unica via per sentirci veramente in pace con noi stessi. Soprattutto in questo periodo dell’anno, quando il freddo si fa più pungente.

In Inverno la potenza di Vata si intensifica e il rischio di trasformarsi in steli secchi e congelati c’è tutto, di sentire il nostro corpo e i nostri pensieri un po’ come le praterie della tundra siberiana, ecco, aridi come i licheni che serpeggiano sulle pietre di montagna e di cui sempre mi stupisco della sopravvivenza. La potenza di Vata secca i nostri pensieri, le nostre cellule, riducendo la fluidità dell’acqua che ci costituisce; porta scompiglio, irrequietezza e disordine, soprattutto quando – nelle giornate di un febbario ventoso – l’aria sembra tagliare a metà la nostra pelle e infilarsi dritta e fredda direttamente nelle ossa. E allora sì che c’è bisogno di nutrire il nostro cuore.

Per l’Ayurveda il cuore è la sede di Manas, la nostra mente, ed è quindi la sede delle nostre emozioni. Un po’ come una valigia che ci portiamo dietro dalla nascita: dentro ci abbiamo raccolto un po’ di tutto. E ci sono periodi della nostra vita in cui neppure saltandoci sopra riusciamo a chiuderla per quante emozioni ci sono dentro e altri periodi in cui rimane spalancata sul letto come la bocca di un usignolo che attende il pasto dalla madre: pur sforzandoci non sapremo proprio cosa infilarci, in quella valigia.

Per nutrire il nostro cuore, a volte, basta davvero poco, basta anche solo un abbraccio, purché porti calore. E non importa se ad avvolgervi è la copertona che vi ha lasciato in eredità la nonna Pina, tutta infeltrita, o un sacco di pelle e ossa. Non importa neppure se quel sacco di pelle e ossa lo amate o è una persona che vi è capitata sulla strada per caso, magari in un pomeriggio di quelli piovosi, dove le luci dentro le case si accendono prima del solito.

Non sapevo cosa volesse dire nutrire il cuore finchè non ho incontrato Cecilia. Cecilia è la mia editrice, oltre a essere una psicoterapeuta dolce e avvolgente come una fetta di torta alle mele quando fuori è buio.

Dietro i suoi occhiali da professionista si nasconde una curiosità per la vita che sa di bellezza, di purezza e, come dice sempre lei, di amore infinito. Non la vedevo da almeno 10 anni quel pomeriggio. Ero arrivata nel suo studio di fretta, come mi ero ripromessa di non fare e, invece, avevo fatto puntualmente. Mi portavo sulla pelle il rumore del traffico dell’ora di punta e il brulicare delle voci di una città di cui avevo scordato il sapore che, forse inconsciamente, non aveva mai smesso di ispirarmi, con le sue luci, i suoi odori, la sua multiculturalità. Lei ha aperto la porta del suo studio e mi ha accolto con un abbraccio così onesto che non ho potuto fare altro che lasciarmi andare, senza freni, togliendo quel freno a mano che stava tirato da un bel po’ di tempo. Mi sono immersa nel suo mondo, fatto di scaffali pieni di libri, soprattutto pubblicati da lei, altri di scrittori di un tempo. Ho sentito l’odore della carta appena stampata, intonsa, di pagine mai toccate da nessuno se non dalle mie mani, per la prima volta. Un arredamento vintage e porcellane antiche e delicate mi hanno riportato a quella frequenza che non risuonava in me da tempo. Mi sono sentita a casa. Mi sono ripromessa che, da quel momento in poi, non l’avrei più lasciata – quella casa.

La cosa più bella è riconoscere la nostra casa, quando la incontriamo. Perché non sempre è così scontato saperlo. A volte quella casa la perdiamo di vista e alberghiamo in appartamenti che crediamo anche piuttosto confortevoli, almeno per un certo periodo. Poi cominciano a diventare stretti, altre volte, lasciamo che le ragnatele prendano possesso degli angoli più bui dove non arriva il nostro sguardo e piano piano quegli appartamenti non ci rappresentano più. Ma la verità è che forse non ci hanno rappresentano mai, fin dall’inizio. E quando parlo di casa non intendo un’agglomerato di mattoni e calcestruzzo. Nutrire il cuore è trovare o ri-trovare la nostra casa, perchè casa – come diceva qualcuno – è dove si trova il nostro Cuore. Non è un posto fisico, ma un Essere. E se siamo fortunati a trovarla o ri-trovarla, fare in modo di dedicarle del tempo. Impegnarsi per dedicare il giusto tempo a nutrire il nostro Cuore.

Molto spesso non c’è bisogno di fare tanto, ma semplicemente di ascoltarsi. E, ancora più spesso, molte volte, c’è bisogno di non fare. Di lasciare che il mondo ci nutra, mentre noi stiamo fermi. A ricevere.

Valentina Ferrero

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