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Tempo di lettura:10 minuti, 53 secondi

Un amico l’altra sera mi ha raccontato questa storia:

C’era una volta un famoso astrologo indiano che passeggiava lungo il corso di un fiume. L’astrologo aveva notato delle impronte lungo la riva e osservandole si era deciso a seguirle. Dalla forma delle impronte aveva intuito di essere sulle tracce di un imperatore, di qualcuno in grado di governare il mondo intero. Deciso a seguire le orme aveva camminato lungo l’intera foresta ma al posto di un imperatore, seduto sotto un albero, aveva trovato Gautama il Buddha.

L’astrologo deluso e amareggiato fra sé e se pensava “devo essere diventato pazzo, questo qui è solo un monaco.”
Così chiedeva al Buddha: “Chi sei tu?” e Buddha rispondeva: “Nessuno.”

“Ma come, io sono sicuro, hai i piedi di un imperatore e dovresti conquistare il mondo!”, replicava l’astrologo. Buddha gli sorrideva: “Ci sono due modi per avere il mondo, si può scegliere di conquistarlo, oppure di includerlo. Io ho scelto l’inclusione. Io sono nessuno e non ho niente, per questo tutto è mio.”

Nel momento in cui si include tutto, ci si prende la responsabilità di tutto e quel tutto diventa anche parte di sè.

Quella della storia è una delle forme in cui può venire percepita la dualità, ossia quell’illusione creata dalla mente per cui si tende a separare in due ciò che semplicemente condivide la medesima realtà: come il conflitto e l’inclusione, sono due poli opposti o, come ci mostra il Buddha, possono essere interdipendenti. C’è un principio che mi ha reso più chiara la non dualità nella pratica dello yoga moderno ed è strettamente connesso al respiro ed al suo ruolo nella meditazione. Per rifletterci bisogna innanzitutto considerare quanto la radice dello yoga posturale, qualunque forma di Hatha Yoga1, resti l’unione.

Nell’esperienza della pratica di asana si porta l’attenzione al corpo-mente come ad un unico, ma qual è l’orma, quale è l’impronta che rimane durante l’esperienza per fornirci la prova tangibile di una non dualità?

Vediamola così: con la pratica fisica si percepisce in superficie l’unione fra due parti, siano queste l’energia maschile del sole e l’energia femminile della luna, da cui Ha (sole) e Tha (luna), o il sistema nervoso simpatico e quello parasimpatico, è il respiro che le rende connesse. Si connettono ai movimenti e si connettono al riequilibrare di conseguenza gli stati d’animo, passando principalmente per il respiro.

La mia pratica di Hatha è molto variata negli ultimi mesi, le serie di Ashtanga Vinyasa2 a cui mi dedicavo hanno lasciato più spazio al Bakhti o al Karma yoga3, e le forme di meditazione attiva che sto sperimentando rendono l’esperienza della non dualità davvero percepibile, mi portano a credere questo approccio sia potenzialmente comprensibile a tutti e qualunque forma di yoga dovrebbe essere così: accessibile ed universale, ma ci torneremo tra qualche riga.

Infatti se in qualsiasi pratica di Hatha il potere del respiro presto o tardi viene svelato, poiché s’impara a connettere movimenti e respiri con i vinyasa4, quello che s’impara al di fuori del tappetino è la meravigliosa capacità del respiro di agire sul nostro intero organismo. È così che comprendiamo come condizioni emotive differenti portano a respirare in maniere differenti. E al contempo si può riconoscere lì un primo inganno duale nel respiro, poiché ha una natura sia artificiale che naturale. Il primo è prettamente abituale e dovuto alle condizioni date dalla presenza di altro intorno a noi, è quel che automaticamente mettiamo accompagna qualsiasi attività diurna, mentre il secondo avviene durante il sonno, libero da pattern mentali predefiniti durante l’infanzia.5

Se si considerano le tecniche classiche dello yoga, la funzione del respiro viene collocata in un particolare strato del corpo sottile: il pranamaya kosha. Questo è noto anche quale ponte fra la buccia esterna del corpo e la sua prima energia vitale. A mio parere le tecniche di meditazione attiva di Osho riprendono questa stessa anatomia e la utilizzano come strumento. Per avvicinarle ci serve capire intanto capire cosa significa prana e dove si colloca nei cinque Kosha complessivi. Capita di sentire banalizzato e tradotto semplicemente prana quale respiro ma questo è solo un suo frammento. Il prana è una forza, un’energia presente in ogni organismo vivente, che trova la sua espressione attraverso il respiro. La funzione del prana ha più sfumature ma principalmente si occupa di connettere, di far fluire, di includere dall’esterno verso l’interno e viceversa.

Il potere del prana sta nel suo funzionamento, nel suo essere il nesso primario all’interno del sistema di cui fa parte. Lo si intuisce meglio comprendendo i diversi strati: immaginiamo cinque cerchi concentrici che racchiudono e proteggono un nucleo molto profondo. Dal cerchio esterno delle sensazioni fisiche, chiamato annamaya kosha, si attraversano verso l’interno diversi strati, passando in primis da quello del prana per poi arrivare al più nascosto anandamaya kosha ovvero il cuore pulsante e centrale dell’essere.

A questo punto potrebbe sorgere spontanea un’obiezione riguardante l’effettiva realtà di questi pancha kosha6, la loro veridicità: perchè mai dar retta alle scritture che li immaginano? Significa di conseguenza arrendersi ad un credo? Ma la fede non è una componente del sistema e lo yoga rimane libero da qualunque religiosità, perché in qualità di sistema omnicomprensivo lo Yoga è pura scienza, come la matematica o la fisica o la chimica… tutte le religioni si basano su un sistema di convinzioni ma lo yoga non ti impone di credere in nulla. Basta metterlo in azione così come un esperimento scientifico… e lo yoga non è induista perché gli induisti l’hanno scoperto. Al pari di altre leggi scientifiche è universale, poiché le sue leggi sono ugualmente applicabili a tutte le persone di tutti i tempi 7

Con la pratica meditativa è attraverso la respirazione che s’intuiscono almeno gli strati più superficiali fra i cinque sopracitati, o perlomeno se ne percepisce una direzione. Infatti ad un livello più sottile è sempre attraverso il respiro che si porta l’attenzione a percepire il sé testimone, l’osservatore esterno della mente, o quello che gli yoga sutra di Patanjali chiamano il seeker.

Siccome arrivare ad osservare sé stessi respirare è tutto fuorché immediato, proveremo a riflettere sul ruolo del respiro in due tecniche: quella tradizionale che nello yoga moderno passa necessariamente prima dai pranayama e quella utilizzata nella meditazione dinamica di Osho.

Nel caso della meditazione silente e statica tramandata con il nome di vippasana, il respiro è essenzialmente naturale poiché si cerca di osservarlo mentre questo avviene: come durante il sonno, senza particolare controllo. Idealmente si tratta di una respirazione tramite l’addome, respirano così i Buddha e le loro raffigurazioni ci aiutano a comprenderne la naturalezza poiché predomina la grande pancia, che svolge l’attività respiratoria. A respirare prevalentemente di pancia sono anche i bambini8, per i quali la mente non ha ancora instaurato degli schemi nella respirazione.

Al fine di arrivare a sedere in silenzio e osservare il respiro la tradizione del Raja Yoga propone di sperimentare diversi pranayama9, utili a trasformare la mente con la loro stessa pratica. Per tutta la durata del pranayama la respirazione viene controllata da regole e questo esercizio si esegue tenendo conto di un ordine preciso (relativo sia al momento della giornata che alla necessità dell’organismo di eseguirlo). I pranayama sono tecniche che a lungo andare vengono interiorizzate, perciò arriva un momento in cui sono sistematizzate nella loro esecuzione. Risulta evidente che per quante varietà differenti ne esistano, il praticarle possa diventare pari ad una respirazione artificiale, poiché ha sempre uno schema d’esecuzione preciso. Può risultare come una danza che si apprende a memoria: crea un’azione ripetuta con la quale la mente s’identifica. In sostanza permane il rischio che, al pari dei passi di danza, imparare i passaggi dei pranayama significhi creare un’identificazione con il corpo stesso che respira.

Nella mia esperienza di insegnante e ricercatrice la sistematizzazione non è certo un male, funziona nella volontà di variare il proprio umore o di dare al sistema nervoso un impulso ben definito come ad esempio quello del rilassamento. L’unica caratteristica che la respirazione sistematica non è in grado di stimolare è quella di tirare in superficie ciò che rimane di norma soppresso nell’inconscio, ciò che è parte del sé più profondo nell’anandamaya kosha.

Questo sembra invece possibile con la meditazione dinamica di Osho, dove ci si impone di sentire la direzione naturale del respiro e seguirla significa porre totale attenzione alle sensazioni fisiche che sorgono durante l’espirazione e l’inspirazione. Suona probabilmente assurdo se non la si è mai sperimentata ma si tratta di una tecnica molto potente e la respirazione ne è la prima fase, un momento preparatorio alla meditazione che arriva in seguito. Osho fa d’immaginare questa particolare fase come una mappa, esiste seppur non si tratti del vero continente: è soltanto una mappa. Allo stesso modo la respirazione è uno stadio preparatorio, fondamentale per uscire dagli schemi della propria respirazione artificiale. Si esegue cercando di respirare il più irregolarmente possibile e si definisce questa respirazione caotica. Significa che per i dieci minuti di durata della fase si cerca una totale irregolarità tanto nel respiro quanto nel movimento che l’accompagna, senza direttive indispensabili. Le fasi della dinamica sono come le marce di una macchina, quella successiva funziona dipendentemente dalla precedente e siccome la mente e il respiro sono abitualmente legati tra loro, qualora si riesca a creare intorno ad entrambi abbastanza discontinuità la parte coscia della mente potrà perdersi nell’esercizio. In buona sostanza quando il respiro viene lasciato senza regole è perché si cerca di spezzarne il ritmo e molto in fretta appena un ritmo di respiro viene riconosciuto come tale, si prova a trovarne uno nuovo. Quando ci si trova colti di sorpresa rispetto agli schemi abitudinari d’improvviso si realizza la necessità di creare una nuova strada per agire, nell’immediato per respirare. Questo crea dei tentativi di disordine rispetto alla respirazione che abitualmente imponiamo a noi stessi e nel metodo di Osho questi momenti sono attimi di presenza. Con questa fase della meditazione dinamica si segue il respiro in una forma che mai ci si permetterebbe normalmente, e l’istante in cui gli schemi di una respirazione abituale, artificiale o imposta si rompono, ecco che si crea spazio ad un momento di vera presenza.10

In tal modo per qualche minuto si butta finalmente all’aria quel lavoro che da una vita intera si è condizionati a svolgere, ossia quel mostrarsi sempre per come si dovrebbe essere, e lentamente affiora in superficie la parte inconscia che abitualmente ci si sforza di mantenere nascosta.11 E se ne diventa coscienti con la pratica stessa.

Come per molte altre esperienze dello yoga, rimane davvero più comprensibile sulla propria pelle che non nella spiegazione teorica. Al contrario dei pranayama tradizionali questa forma di respirazione ha come scopo quello di essere una pratica momentanea: dieci minuti di respirazione caotica non concorrono a creare alcun rischio di un’abitudine trasferibile nella vita di tutti i giorni, soprattutto perché saranno sempre in cambiamento soggettivo.

In fin dei conti il respiro caotico è quello che genera proprio una piccola discontinuità, s’introduce una anomalia affinché si renda possibile un’apertura sulle sensazioni emotive più profonde. Ma la respirazione caotica porta anche a distaccarsi dal proprio respiro abituale, ad osservarsi respirare, a prendere delle distanze e perciò a compiere un primo passo verso quel sé testimone che qualsiasi forma di meditazione vorrebbe farci provare.

Nella respirazione si potrebbe vedere allora che la non dualità o lo Jug12 appare nella coesistenza fra la capacità innata che abbiamo di respirare, di non accorgercene nemmeno, ed i tentativi di riportare la respirazione ad essere liberamente osservabile. Includere significa allora far sì che il respiro ci porti verso quello strato più profondo che custodisce le nostre emozioni, per riuscire ad esprimerle o per permetterci di osservarle.

Erica Amano Twameva

NOTE

1 Hatha Yoga, percorso di pratica fisica principalmente costituito dallo studio di asana

2 sequenze di asana e mantra che combinano gli Yoga Sutra di Patanjali alle posizioni classiche dell’Hatha Yoga

3 Bhakti Yoga, pratica dedicata all’amore e alla devozione in qualsiasi sua forma;

Karma Yoga, o del lavoro pratico, dedicato alle azioni disinteressate, fatte con attenzione ed altruismo

4 il sistema di conteggio di ogni respiro per movimento nella pratica dello yoga, con un numero sanscrito

5 A Compendium on Osho Dynamic Meditation, Osho Media International, Pune 2009

6 Ministry of AYUSH, Yoga professionals official guidebook, New Delhi 2016

7 Seth, S. Practical Yoga, Bombay India book house, xvi, 1983

8 A Compendium on Osho Dynamic Meditation, Osho Media International, Pune 2009

9 controllo o espansione della forza vitale attraverso esercizi di respiro

10 A Compendium on Osho Dynamic Meditation, Osho Media International, Pune 2009

11John Andrews, A closer look at the first stage https://www.youtube.com/watch?v=0HUrWofjyVs

12 La radice del termine yoga è jug, parola sanscrita che indica l’unità

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