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È possibile definire lo Yoga un “percorso di evoluzione spirituale” o un “cammino spirituale”?

Prima di tentare di dare una risposta – che potrebbe essere meno scontata di ciò che possa apparire – occorre, farci un’altra domanda: Cosa è Yoga?

Dato, infatti, che si tratta di una parola che negli ultimi decenni ha assunto mille e mille sfumature diverse, spesso in contrasto tra loro, per evitare fraintendimenti è meglio chiarire sino dall’inizio cosa intendiamo per Yoga. Decidiamo quindi, arbitrariamente – e senza avere la pretesa di soddisfare tutti – che in questo ambito, lo Yoga sia:

Una disciplina caratterizzata dalla pratica di Kriyā, Āsana, Bandha, Vinyāsa, Prāāyāma, Mantra, Dhāraā, Dhyāna… che condivide le concezioni anatomiche e fisiologiche dello Āyurveda e si basa su un certo numero di testi di riferimento quali lo Yoga Sūtra di Patañjali, la Hahayoga Pradīpikā di Svātmārāma e la Gheraṇḍa Sahitā di Gheraṇḍa e Chandakapali.

Stabilito cosa noi intendiamo per Yoga, vediamo adesso il significato di “cammino spirituale” o “percorso di crescita interiore”.

Il concetto di “evoluzione spirituale” si sviluppa in ambito religioso e riguarda – almeno per i cristiani – un insieme di nozioni teoriche e pratiche atte a comprendere che:

«c’è una forza più grande in azione in noi [e che bisogna] avviare quel processo di cambiamento che può aiutarci a controllare la sfera istintiva del nostro pensare e agire»1, una “sfera istintiva che «[…] tutti ci portiamo dentro come bisogno di sopravvivenza e che spesso fa emergere la nostra parte egoistica ed individualistica»2

“Cammino spirituale”, “evoluzione spirituale” e “crescita interiore”, sono tutte definizioni di un processo teso a risolvere un conflitto, più o meno aperto, tra un mondo “istintivo”, “materiale” o ”fisico” permeato di egoismo, individualismo e attrazione per i piaceri sensoriali – di cui si ha esperienza attraverso i sensi – e un mondo “spirituale” o “interiore” permeato di luce, serenità e bellezza, non percepibile con gli organi di senso.

Questo secondo mondo – il mondo spirituale – sarebbe la sorgente vitale, la fonte da cui il mondo materiale trae la sua stessa esistenza e, non essendo percepibile con i sensi fisici, in linea di massima può essere conosciuto solo attraverso strumenti non ordinari, che possiamo individuare nella “fede” e nell’acquisizione di organi di senso super umani – come “il terzo occhio”, “l’orecchio interiore”, “l’intuito sovra conscio” ecc.…- che fa seguito, solitamente, ad esperienze paranormali.

Nelle religioni con le definizioni “cammino spirituale”, “evoluzione spirituale” o “percorso di crescita interiore” si intende il viaggio a ritroso dal mondo materiale alla “sorgente vitale”, un viaggio la cui meta ultima viene detta a volte Liberazione, altre Realizzazione, altre ancora Conoscenza…tutte parole scritte, in genere, con l’iniziale maiuscola per distinguerle da qualche forma ordinaria di liberazione – ad esempio la liberazione sessuale – realizzazione o conoscenza.

Ciò da cui, in fin dei conti, “l’aspirante conoscitore della realtà ultima” dovrebbe liberarsi – secondo la maggior parte delle religioni e delle filosofie teistiche del nostro tempo – è la materialità, ovvero la convinzione di appartenere ad un mondo fisico, fatto di terra, acqua, fuoco e vento e, quindi, sottoposto alla continua trasformazione; un mondo che per alcuni non avrebbe neppure un’esistenza reale, ma sarebbe solo il frutto di un illusione creata dalla mente umana, come il castello del mago Atlante descritto da Ariosto nell’Orlando Furioso.

Una volta libero, l’aspirante realizzerebbe quindi la sua appartenenza ad un mondo spirituale fatto di pura coscienza e, perciò (?) inattaccabile, inalterabile ed eterno; un mondo in cui non si sente fame né freddo, non si prova piacere né dolore, non esiste il passato né il futuro e, in ultima analisi, non esiste nessun “io”, nessun Paolo, Laura, Jean, Lucy…, o meglio, non esiste nessun io come lo intendiamo noi.

“Il cammino spirituale”, il “viaggio” – sempre secondo le religioni e le filosofie teistiche – di solito comincia dopo essere stati male, un male che, rientra in un ampio ventaglio di possibilità che vanno da una generica insoddisfazione per la propria situazione sentimentale o lavorativa, a stati depressivi più o meno gravi;

È qui, nello star male, che appare – in forma di persona, libro, angelo o sogno – la guida spirituale, definita spesso “guru” o Maestro con la “M” maiuscola, e questa apparizione sarà l’inizio, la prima di una serie di tappe in cui è suddiviso il “cammino spirituale”, il superamento di ciascuna delle quali verrà considerato una piccola “realizzazione”

Il Maestro ci indirizzerà verso la disciplina e/o la tecnica psicofisica e/o il credo religioso che per vari motivi, non sempre chiarissimi, saranno ritenuti – per noi e in quel momento – la via migliore per “sciogliere le catene che ci impediscono di essere felici”.

In genere, qualunque sia il credo religioso a cui l’aspirante decide di aderire, vengono proposte tipologie di pratiche:

  1. Meditazione, contemplazione e preghiera
  2. Ginnastiche di vario genere e pratiche di purificazione del corpo, tra cui diete, digiuni ecc.
  3. Tecniche sessuali, che vanno dalla completa astinenza (che di fatto è una tecnica sessuale) all’utilizzazione dell’orgasmo raggiunto con il proprio partner o in ambiti “promiscui”.

Insieme alle pratiche la guida spirituale suggerirà la lettura e lo studio approfondito di una serie di libri – che, generalizzando, potremmo, definire sacri – e/o, ai nostri tempi, la visione di video motivazionali, didattici e biografici.

Detto questo veniamo alla domanda che, essendo praticanti e insegnanti di yoga, ci sta maggiormente a cuore: Può lo Yoga essere definito un “cammino spirituale”?

Sì e no.

“Sì “perché è, dichiaratamente, un percorso teso alla “Realizzazione” o alla “Liberazione”.

“No”, perché non so se uno yogi – inteso come colui che pratica Kriyā, Āsana ecc., conosce lo Āyurveda e studia Patañjali ecc. – possa condividere l’impostazione dualistica e le definizioni di Realizzazione e Liberazione di cui abbiamo parlato in precedenza; impostazione e definizioni condivise da moltissimi “ricercatori spirituali” odierni.

Cercherò di spiegare questa contraddizione attraverso ciò che credo di aver imparato oltre cinquanta anni di pratica dello Yoga e di studio di Patañjali, Svātmārāma ecc.

Prendiamo il concetto dell’illusorietà della manifestazione “grossolana”, contrapposta alla Realtà – con la “r” maiuscola – del dominio dello spirito; Patañjali nel secondo libro, sādhana pāda, mi pare sia molto chiaro in proposito (2.20-22):

  1. Il veggente [è pura coscienza e] anche se è puro, percepisce attraverso le colorazioni della mente3.
  2. La natura [l’oggetto di percezione] non ha altro scopo se non quello di essere percepita [dal Sé]4.
  3. Per colui che ha raggiunto il suo scopo [ovvero la liberazione] [la natura intesa come] l’oggetto di percezione sembra cessare di esistere, ma continua ad esistere per tutti gli altri sperimentatori.5

Per Patañjali la manifestazione – l’oggetto di percezione – non è affatto illusoria, ma esiste a prescindere dal veggente (ovvero colui che percepisce, il soggetto della percezione). In questi versetti non si parla affatto di una doppia realtà, di una dimensione spirituale, pura, e di una dimensione materiale fonte di dolore e sofferenza, ma, anzi, sembra affermare che il dolore e la sofferenza derivano dalla errata discriminazione tra manifestazione (oggetto di percezione dotato di una propria realtà a prescindere dal “veggente”) e “veggente” (soggetto di percezione)6. La natura (2.22) «sembra cessare di esistere» perché il “veggente” si scopre uno con essa, come l’acqua dell’onda che prende coscienza di essere l’oceano: non è l’oceano a scomparire e ad essere illusorio, ma la differenza tra l’onda e l’oceano.

Nella tradizione dello Yoga medioevale, a cui Patañjali appartiene, non esiste la dualità spirito-materia, giacché la realtà è Una e appare diversa solo in base alle “colorazioni” della mente.

Detto questo, bisogna ammettere che lo Yoga, continuando a prendere come riferimento il secondo libro di Patañjali, sembra possedere tutte le caratteristiche che sembrano connotare il “cammino spirituale”. Nel versetto 2.27 ad esempio, Patañjali accenna a “sette tappe” o “livelli progressivi” che l’aspirante deve percorrere per realizzare prajñā, intesa come “saggezza” o “conoscenza perfetta”:

तस्य सप्तधा प्रान्तभूमिः प्रज्ञा ॥२७॥

tasya saptadhā prānta-bhūmi prajñā 27

  1. Praticando ininterrottamente la discriminazione (viveka) si ottiene la conoscenza perfetta (prajñā) attraverso sette stati progressivi (della mente).7

La parola bhūmi, che significa letteralmente “Terra”, “luogo”, “terreno”, “territorio”; nel buddhismo Mahāyāna – e in Patañjali – indica, determinati stati o livelli mentali8 e, unita alla parola saptadhā dovrebbe indicare sette livelli progressivi della mente (citta) 9 che si raggiungono nella pratica, ovvero:

  1. Vyutthāna-citta, “lo stato attivo della mente in cui si entra in contatto con una realtà più elevata”, la “mente emergente”;

  2. Nirodha-citta, la mente “controllata/contenuta”;

  3. Nirmāa-citta, la mente “germogliata”;

  4. Praśānta-citta, la mente “calma, tranquilla”;

  5. Ekāgratā-citta o Cittaikāgratā, la mente “concentrata”;

  6. Chidra-citta, la mente “affilata”, o la “fessura della mente”;

  7. Paripakva-citta, la mente “matura”, detta anche divya-citta, “mente pura o “mente divina”.

Secondo l’interpretazione di autori come Iyengar10, per realizzare ognuno di questi sette stati progressivi occorre varcare sette diverse “frontiere” applicando la tecnica operativa detta sayama, descritta da Patañjali nel terzo libro:

  1. Śarīra sayama, fare sayama sul corpo fisico;

  2. Indriya-sayama, fare sayama sugli organi di azione e di senso;

  3. Prāa-sayama, fare sayama sulla circolazione dei “soffi vitali”;

  4. Mano-sayama, fare sayama sulla mente sensoriale;

  5. Buddhi-sayama, fare sayama sulla mente intuitiva;

  6. Citta- sayama, fare samyama sulla mente intesa come insieme delle funzioni intellettuali.

  7. Ātma-sayama fare sayama sull’ Ātma, su di sé

L’utilizzazione, frequentissima, della parola bhūmi intesa “territorio della mente” nello Yoga Sutra suggerisce, decisamente – secondo me – l’idea del “viaggio”, un viaggio che attraversa, almeno, sette tappe – Vyutthāna-citta ecc. – superabili grazie alle otto membra dello yoga e alle pratiche descritte da Patañjali nel terzo libro (sayama); un viaggio e che potremmo definire un percorso di evoluzione dell’essere umano basato sull’integrazione tra Corpo, Mente ed Energia.

Se quindi la definizione “Cammino Spirituale” implica la risoluzione di un conflitto tra (1) una realtà materiale, grossolana in cui gli esseri sono guidati da un istinto che conduce ad egoismo, individualismo e ogni genere di laidezza, e (2) una realtà spirituale, sottile che, pur essendo la sorgente vitale del mondo grossolano, né è completamente distaccata, la risposta alla nostra domanda è no: lo Yoga non può essere un Cammino Spirituale, perché non esiste nessuna dicotomia tra spirito e materia, e il corpo dello yogin è sacro di per sé.

“Realizzazione significa entrare nella Terra Pura con il corpo fisico.”
Lama Tzongkhapa, 1357-1418

Paolo Proietti

NOTE

1 Vedi: Carlo Molinari, “IL CAMMINO SPIRITUALE DEL CRISTIANO”. Gabrielli Editore (2021).

2 Ibidem.

3 द्रष्टा दृशिमात्रः शुद्धो ऽपि प्रत्ययानुपश्यः ॥२०॥

draṣṭā dr̥śi-mātra śuddho ‘pi pratyayānupaśya 20

4 तदर्थ एव दृश्यस्यात्मा ॥२१॥

tad-artha eva dr̥śyasyātmā 21

5 कृतार्थं प्रतिनष्टमप्यनष्टं तदन्यसाधारणत्वात् ॥२२॥

kr̥tārtha prati-naṣṭam apy anaṣṭa tad anya-sādhāraatvāt 22

6 Vedi Yoga Sūtra 2.23-26:

स्वस्वामिशक्त्योः स्वरूपोपलब्धिहेतुः संयोगः ॥२३॥

sva-svāmi-śaktyo svarūpopalabdhi-hetu sayoga 23

तस्य हेतुरविद्या ॥२४।

tasya hetur avidyā 24

तदभावात् संयोगाभावो हानं तद्दृशेः कैवल्यम् ॥२५॥

tad-abhāvāt sayogābhāvo hāna tad-dr̥śe kaivalyam 25

विवेकख्यातिरविप्लवा हानोपायः ॥२६॥

viveka-khyātir aviplavā hānopāya 26

Traduzione:

  1. La causa dell’attivazione [reciproca] dei poteri del “veggente” e dell’oggetto di percezione è il contatto [ovvero la congiunzione, Sayoga].

  2. La causa del contatto [ovvero della congiunzione, Sayoga] è l’ignoranza ( avidyā).

  3. Una volta superata l’ignoranza (avidyā) scompare il contatto [ovvero la congiunzione, Sayoga] e, realizzata la condizione detta kaivalya, il veggente è libero.

  4. Per distruggere l’ignoranza bisogna praticare ininterrottamente la discriminazione (viveka).

7 Traduzione di Swami Vivekananda del versetto 2.27:

  1. His Knowledge is of the sevenfold highest ground.

8 Vedi Mahāprajñāpāramitāśāstra di Nāgārjuna

9 Vedi anche: Amanaska Yoga Of Goraksha Nath Intro By Gopinath Kaviraj Shri Yognath Swami. By Shri Yognath Swami; https://archive.org/details/amanaska-yoga-of-goraksha-nath-intro-by-gopinath-kaviraj-shri-yognath-swami

10 vedi, ad esempio B. K. S. Iyengar, Light on the Yoga Sutras of Patanjali, HarperCollins; 2005. ISBN-10 : 9788172235420

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