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Lo yoga affonda le sue radici in India. Fatto questo difficilmente confutabile, soprattutto tenendo conto di quanto al riguardo sia oggi a nostra disposizione, sia dal punto di vista storico-culturale che antropologico.

Alcuni scavi effettuati da Sir John Hubert Marshall agli inizi del ‘900 nella valle dell’Indo, intorno alle città di Harappa e Mohenjo-Daro, portarono alla luce statuette e sigilli in terracotta raffiguranti individui in posizioni yogiche di meditazione (es. siddhasana o sukhasana), produzioni queste, di una civiltà risalente al periodo fra il IV e il II millennio a.C. Ciò fece pensare che lo yoga fosse conosciuto e praticato già da quei tempi.

Per gli indiani “lo yoga nacque con il nascere della stessa civiltà”. E forse è proprio qui, in quest’ultima affermazione, che si può rintracciare il legame fortissimo tra l’India e questa disciplina.

L’India è un paese ricco di tradizioni antichissime, dagli usi e costumi che traspirano spiritualità e sacralità. I suoni, i colori, i sapori, le persone che hanno nel loro sangue il vibrare di tale terra, sono fusi tra loro e in essa amalgamati. I suoi abitanti mantengono nel tempo moderno un legame visibile con usanze passate che ne favorisce il restare saldi ad un tipo di educazione quasi folcloristica che li vuole però attenti e rispettosi di sé, del prossimo, della natura, del Divino presente in ogni cosa. Consapevoli di aver ricevuto un intero sistema di conoscenze che a partire dall’appartenenza a una “data” famiglia, si sviluppa sia verso l’autorealizzazione che verso la comprensione dell’altro e del fuori di sé, gli indiani restano vincolati alla propria terra natale ed è per questo che può essere ricercata in loro la testimonianza di quel “qualcosa” che li ha resi pronti ad accogliere la scienza dello yoga e a percorrerne la via indicata.

Uno dei metodi più semplici e allo stesso tempo raffinati e stimolanti per fare la conoscenza di un popolo e comprenderne le caratteristiche che lo contraddistinguono, è quello di leggerne i testi più antichi, da quelli sacri a quelli popolari, narrazioni tramandate per millenni per via orale e poi, solo successivamente in forma scritta. La letteratura con i suoi miti, leggende, fiabe, favole ci mostra l’evolversi dell’uomo nel tempo e nello spazio. Ci permette d’immergerci in un sentire che altrimenti riusciremmo mai anche solo ad immaginare. In India poi, la parola, pensata, orale, scritta, non è solo un semplice termine utilizzato per definire…

La “parola pronunciata” è così rilevante da incarnarsi addirittura in una divinità Vāc (devanāgarī, वाच्), “parola”, “voce”, o anche “suono”.

«Vāc è proprio la Parola totale vivente, vale a dire la Parola nella sua interezza compresi i suoi aspetti materiali, il suo riverbero cosmico, la sua forma visibile, il suo suono, il suo significato, il suo messaggio. Vāc è più che mero significato o suono privo di senso; è più di una semplice immagine o veicolo di determinate verità spirituali. Essa non contiene rivelazione, è rivelazione. Era al principio. È l’interezza della śruti. La śruti è vāc.»

(Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 120)

Vāc fu la prima manifestazione dell’Assoluto, ed è nella Parola che Dio e l’uomo s’incontrano. Gli uomini hanno cominciato ad avere consapevolezza di sé quando hanno iniziato ad elaborare il linguaggio e a usarlo per comunicare, per entrare in contatto con l’altro oltre il semplice intendersi per affinità espressiva, per raccontare le proprie esperienze, per trasmettere conoscenza e sapere, per svelare il proprio mondo interiore oltre quello apparentemente visibile.

«In principio questo universo non era né Essere né Nonessere. In principio, in verità, questo universo esisteva e non esisteva: solo la Mente esisteva. – …Questa Mente non era, per così dire, né esistente né non-esistente. – Questa Mente, una volta creata, desiderò di divenire manifesta… – Quella Mente allora creò la Parola. Questa Parola, una volta creata, desiderò di divenire manifesta, più visibile, più fisica. Cercò un sé. Praticò una fervida concentrazione. Acquisì una sostanza. Essa era i trentaseimila fuochi del suo stesso sé, fatti della Parola, costituiti dalla Parola… con la Parola essi cantarono e con la Parola essi recitarono. Qualunque rito si compia nel sacrificio, qualunque rito sacrificale esista, esso è compiuto dalla sola Parola, come rappresentazione vocale, su fuochi composti di Parola, costituiti da Parola… – Quella Parola creò il Respiro Vitale.»

(Śatapatha Brāhmaṇa X, 5, 3, 1-5; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 146)

In India la parola è forte, potente, attiva, tanto che le formule di benedizione e di maledizione, ancora oggi, hanno effetti prodigiosi. L’indiano che sente starnutire un’altra persona esclama ‘Jiva!’ (Che tu viva!) per impedire al soffio vitale di sfuggire dal naso… e ci crede.

La tradizione indiana orale e scritta ci presenta un uomo, un uomo di fede, che vive contemplando l’infinito a cui si sente di appartenere, un uomo che ha chiara l’importanza dell’essere presente a sé stesso per poter agire con etica, disciplina e amore sul piano di realtà in cui si trova. Le manifestazioni dell’Universo e delle entità che lo abitano si rintracciano nel vivere quotidiano dell’uomo più semplice e povero, così come in quello di colui che è più colto e ricco ed è per questo che ogni pensiero, ogni gesto, ogni respiro conta. L’uno nel molteplice, il microcosmo nel macrocosmo, la parola che crea, l’importanza del “qui e ora”.

E allora, diamo inizio alla nostra esplorazione…

Il più antico documento d’una lingua indoeuropea è il Ṛgveda (devanāgarī: ऋग्वेद) è una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda, “Inni dei Veda” o “Inni della Conoscenza” destinati ad accompagnare i sacrifici per le divinità, trasmessi oralmente per diversi secoli prima d’essere messi per iscritto attorno al 1200 a.C.

Nella saṃhitā del Rgveda l’inno dedicato a Vāc è uno dei più splendidi fra tutti quelli dedicati al principio femminile:

«Mi muovo con i Rudra e anche con i Vasu, – mi muovo con gli Àditya e tutti gli Dei. – Sostengo sia Mitra che Varuna, – Indra e Agni e i due Asvin. — Sostengo Soma l’esuberante; – sostengo Tvastar, Pusan e Bhaga. – Riverso ricchezza su colui che offre l’oblazione, – l’adoratore e il pio spremitore di Soma. — Io sono la Regina che governa, colei che accumula tesori, – piena di saggezza, la prima di coloro che sono degni di adorazione. – In diversi luoghi le energie divine mi hanno posta. – Io entro in molte case e assumo numerose forme. — L’uomo che vede, che respira, che sente parole pronunciate, – ottiene il proprio nutrimento solo attraverso me. – Pur non riconoscendomi, egli dimora in me. – Ascolta, tu che conosci! Ciò che io dico è degno di fede.»

(Ṛgvedasaṃhitā X, 125, 1-4; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, pp. 130)

Seguono i Brāhmaṇa (devanāgarī: ब्राह्मणं, “affermazione sul Brahman”), testi religiosi indiani composti in sanscrito intorno al XI-IX secolo a.C., che attraverso la mitologia spiegano i riti.

Questo passo del Tāndya Mahā Brāhmana tratta il ruolo primario della Parola nella creazione del mondo:

«Questo [in principio] era il solo Signore dell’universo. La sua Parola era con lui. Questa Parola era il suo secondo. Egli contemplò. Egli disse: «Libererò questa Parola, così che ella produrrà e creerà tutto questo mondo».»

(Tāṇḍya Mahā Brāhmaṇa, XX, 14, 2; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 145)

Il Mahābhārata (devanāgarī : महाभारत, “La grande [storia] dei Bhārata”) invece, con oltre centomila strofe, è il più vasto poema epico artistico e religioso della letteratura indiana e mondiale il cui autore è forse Sri Vyasa.

Al suo interno troviamo la Bhagavadgītā (devanāgarī: भगवद्गीता, “Canto del Divino” o “Canto dell’Adorabile” o, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il “Meraviglioso canto del Divino”) ove è svelato il testo sacro del Vangelo del Dovere che Krishna insegnò al grande guerriero Arjuna.

«Se morirai (combattendo i tuoi nemici), guadagnerai il cielo; se vincerai, godrai la gloria terrena. Perciò, Figlio di Kunti, alzati, deciso a combattere! Rimanendo equanime nella felicità e nel dolore, nel guadagno e nella perdita, nella vittoria e nella sconfitta, affronta la battaglia della vita. Così non commetterai peccato.»

(Bhagavadgītā, II, 37-38)

Suddiviso in 18 libri, narra il conflitto tra i due rami dell’antica famiglia reale dei Bharata: i kuruidi, figli del re diretti discendenti del regno e i panduidi, loro cugini. Oltre la storia centrale vengono trattati temi mistici, religiosi, filosofici e giuridici… Non mancano novelle, genealogie e riferimenti pedagogici. In India si dice: “Quel che non c’è nel Mahabharata, non esiste da nessun’altra parte”.

Il Rāmāyana (rāmāyaṇa, devanāgarī: रामायण; lett. il “Cammino – ayana- di Rama”) del 200 a.C.–200 d.C., è l’altra grande epopea in lingua sanscrita, ventiquattromila strofe suddivise in sette libri, in cui oltre a narrare prevalentemente le avventure di Rama, modello di tutte le virtù, incarnazione di Vishnu, campione del Dharma, nei libri primo e settimo si fa riferimento ad altri miti.

Qui, verso la fine del primo dei sette libri, Rama, innamorato della bella Sita, figlia del re Janaka, deve affrontare la prova di tendere un arco così grande e pesante da essere trasportato in una cassa di ferro su un carro a otto ruote trainato da ben 5000 giovani.

“Quindi il figlio di Raghu, come in una gara,

Davanti a migliaia di spettatori,

Afferrò l’arma nel mezzo e la sollevò

Tutta la folla lo fissò con meraviglia.

Con braccio fermo tese la corda

Fino a spezzare l’arco potente in due.

Come l’arco scoppiò, un suono terribile,

Forte come lo stridore delle tempeste, risuonò.

La terra, spaventata, fu scossa con gran forza

Come quando una collina si apre in due.”

“Il valore di questo eroe merita il matrimonio.

Più cara a me della luce e della vita,

La mia Sita sarà moglie di Rama.”

L’opera per eccellenza dei più antichi racconti mitici indiani sono i Purāṇa (devanāgarī: पुराण; lett. “antiche [storie]”) un gruppo di testi sacri hindū, redatti in lingua sanscrita, di carattere principalmente mitico e culturale. Divisi in 18 ‘grandi’ Purana e in numerosi Purana ‘minori’.

Nel Matsya Purāṇa (sanscrito: मत्स्यपुराण), il primo dei Purāṇa, il testo sacro più antico della religione induista, troviamo la storia del primo avatar di Visnù, il pesce Matsya che mentre Brahmā dormiva, visto il demone Aja-Griva rubare i Veda, comparve al re Satyavrata e gli disse:

«Fra sette giorni, i tre mondi periranno sommersi: ma di mezzo devastatrici emergerà un vascello che io medesimo condurrò, e che si fermerà innanzi a te: tu vi riporrai ogni sorta di piante e semi e una coppia di tutti gli animali, poi v’entrerai tu stesso. Quando il vento agiterà il vascello, appigliati al corno ch’io porto in capo, giacché io sarò presso a te, finché la notte di Brahma finisca»

Quando le acque del diluvio si ritirarono i Veda furono ritrovati nel cadavere del gigante Aya-Griva ucciso da Vishnu e dati a Satyavrata.

Siam così giunti alle favole, ove i protagonisti reali, siano essi esseri umani o animali ci regalano sempre una morale e ci indicano come compiere scelte attente e ragionevoli, evitando di peccare guidati da una superbia che accieca o dalla pigrizia che rende superficiali e sconsiderati. Le favole ci consigliano strumenti da utilizzare per fare della nostra vita un’opportunità di crescita e di evoluzione terrena ed ultraterrena. Nelle favole indiane, così come in India, non vi è distinzione tra umano e animale, anzi questi tendono ad avvicinarsi costantemente, a trasmutare l’uno nell’altro proprio come avviene all’anima che secondo la metempsicosi, dottrina della reincarnazione, essendo l’universo un ciclo infinito di vita e di morte (samsara), una volta lasciato un corpo può trasmigrare in un altro tornando alla vita, sotto forma di essere umano o animale, in base al comportamento tenuto nella vita precedente e all’osservanza dei precetti religiosi.

Qualche esempio di favola è già presente nel Mahabharata ove tra le numerose storie ritroviamo quella in cui mentre Yudhisthira, uno dei cinque fratelli Pandava, si chiede quale comportamento debba adottare un sovrano povero di risorse, inizia un dialogo tra il Gange e l’Oceano:

Caro sposo Oceano – disse la dea Gange – gli alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e quando viene la mia piena si oppongono presuntuosi alla corrente: è proprio per questa loro resistenza che devono poi abbandonare la propria sede. La canna invece, se vede avvicinarsi la piena, la sa accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la piena è passata, eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il tempo giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi, non dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene trascinata via”.

É il Pañchatantra (o Panchatantra o Panciatantra; IAST: Pañcatantra, sanscrito: पञ्चतन्त्र, “Libro di istruzione in cinque parti”) però la più famosa raccolta di favole indiana e probabilmente anche la più antica.

Messo per iscritto tra il I e il VI secolo d.C., nell’introduzione si narra di un re che aveva tre figli svogliati e indolenti. Preoccupato si rivolse a un saggio brahmano, Vishnusharma chiamato anche Pilpay. Questi, affermò che entro sei mesi i tre figli sarebbero divenuti “uomini senza pari nella scienza del governo”. Compose per loro il Panchatantra, attraverso cui li istruì proponendo un’affascinante sequenza di favole sulle diverse filosofie della vita.

Curiosità: il Panchatantra raggiunse la Persia dove, nel VI sec., un re sassanide lo fece tradurre in pahlavi. L’opera tradotta in persiano divenne Il Libro dei Saggi o La Condotta dei Re che arrivò in Francia con il titolo di Fables de Pilpay.

Jean de La Fontaine, scrittore e poeta francese, autore di celebri favole con animali come protagonisti, scrisse nella prefazione del suo settimo libro di favole: “Dirò per riconoscenza che devo gran parte del mio lavoro a Pilpay, saggio indiano”. La stessa opera servì da base alla traduzione araba di Ibn al–Muqaffa la quale venne a sua volta tradotta numerose volte, in aramaico, in greco, in latino e poi in tedesco, spagnolo e francese.

Vishnusharma–Pilpay si è così guadagnato l’appellativo di “Padre delle favole dell’Occidente”.

Leggiamo…

Il vaso rotto.

Un portatore d’acqua, in India, aveva due grandi vasi, ciascuno sospeso alle estremità di un palo che portava sulle spalle. Uno dei vasi aveva una crepa, mentre l’altro vaso era perfetto. Alla fine della lunga camminata che l’uomo faceva dal ruscello verso casa, il vaso integro arrivava colmo di tutta l’acqua raccolta, mentre quello crepato ne conteneva ormai più poca. Questo andò avanti per anni. Naturalmente, il vaso perfetto era ideale per il compito per cui era stato costruito e orgoglioso dei propri risultati; viceversa, il povero vaso crepato si vergognava del proprio difetto, e si sentiva un miserabile fallito perché era in grado di compiere solo parte del suo compito, così un giorno decise di parlare al portatore d’acqua dicendogli:

Mi vergogno di me stesso, e voglio scusarmi con te. Sono stato in grado di fornire solo la metà del mio carico, perché a causa di questa crepa nel mio fianco tutta l’acqua se ne esce durante tutta la strada fino a casa tua. A causa dei miei difetti, non ottieni pieno valore dai tuoi sforzi”.

Il portatore d’acqua disse allora al vaso: “Hai notato che c’erano solo fiori dalla tua parte del sentiero, ma non dalla parte dell’altro vaso? Ho sempre saputo del tuo difetto, e così ho piantato semi di fiori lungo il sentiero dal tuo lato e, ogni giorno, mentre tornavamo, tu li annaffiavi. Per anni ho potuto raccogliere quei bei fiori per decorare la mia tavola e, senza il tuo essere semplicemente come sei, non ci sarebbero quelle bellezze ad abbellire la mia casa”.

Qual è secondo voi la morale?

Passiamo ora all’ultimo luogo, da noi, ancora inesplorato.

In generale non è facile circoscrivere l’epoca precisa in cui è sorta la fiaba, ma si può invece indicare l’India come una delle prime aree geografiche, in cui essa assunse precocemente veste letteraria. È in India che si rintracciano le più antiche raccolte di novelle e di fiabe, storie pregevoli, raffinate, in versi e in prosa. Le fiabe indiane giungono a noi dopo una millenaria tradizione orale che solo successivamente ha trovato forma scritta nelle fonti antiche già menzionate, nelle numerose raccolte di racconti Brahmanici e Jaina… in esse sono riconoscibili contenuti etici e espressioni narrative vicini alla dottrina vedica. Le fiabe fluttuano tra il terreno ed il divino, non servono al lettore solo una morale, ma gli danno una visione più ampia della realtà, spingendolo attraverso il fluire fantastico a ritrovare e riconoscere le sue potenzialità nascoste, la sua origine divina e la possibilità di trascendere i propri limiti.

In epoca romantica, già si sosteneva che l’India fosse la madre di tutta la nostra letteratura. Oggi sappiamo per certo che molti dei testi delle favole e fiabe indiane hanno viaggiato fino a raggiungerci in occidente, prima di quando lo facesse l’insegnamento dello yoga. Chissà, probabilmente uno dei loro scopi è proprio preparare l’uomo a una comprensione più ampia, che vada oltre la materialità e lo predisponga ad accettare l’impossibile come possibile, la presenza di un legame eterno tra il visibile e l’invisibile…

Il nostro viaggio sulle tracce dello spirito dello yoga all’interno delle vaste terre della letteratura indiana, a questo punto si conclude. L’India è il luogo ove la scienza dello yoga ha trovato terreno fertile, presentandosi a uomini di grande ricchezza interiore, capaci di comprendere il mondo oltre le apparenze. Un forte senso spirituale e una buona dose di pragmatismo hanno fatto sì che tale disciplina fosse accolta, compresa e soprattutto coltivata…

La Volpe e il Bramino.

C’era una volta un bramino indiano, un po’ ingenuo e molto buono. Il religioso si andava spesso a celebrare cerimonie religiose in luoghi lontani e isolati. Un giorno, durante uno dei suoi viaggi, attraversando una foresta, incontrò un leone rinchiuso in una gabbia. Il bramino provò pietà per l’animale e decise di liberarlo, nonostante sapesse che il leone avrebbe potuto divorarlo.

Il leone gli disse: “Ti giuro che non mangerei mai il mio benefattore!”

Il buon bramino lo liberò, ma a quel punto l’animale disse: “Come hai potuto pensare che dicessi la verità? Ho fame e ti mangerò!”.

Il bramino allora gli chiese: “Prima di mangiarmi, sentiamo cosa ne pensa questo albero!”.

L’albero rispose: “Gli uomini sono cattivi. Io offro loro riparo e refrigerio, e loro per tutta ricompensa mi tagliano e mi uccidono. Per me lo puoi mangiare!”.

Il bramino decise di chiedere un altro parere e allora si rivolsero ad un asino che stava brucando in una radura poco lontano. Alla domanda l’asino rispose: “Gli uomini? Creature perfide! Ci sfruttano tutta la vita, e quando siamo vecchi ci abbandonano. Mangialo pure!”.

In quell’istante, arrivò una volpe: “Chiediamo anche a lei, disse il bramino, e se anche lei dirà di mangiarmi, potrai mangiarmi!”.

La volpe guardò i due e disse: “Voi mi state prendendo in giro: ma come faceva un leone così ciccione a stare in una gabbia così piccola?”.

Il leone, offeso, tenne a precisare che non era affatto grasso e che invece entrava nella gabbia senza difficoltà. La volpe continuò: “Sì, e io dovrei crederci?! Figuriamoci…”

A quel punto, il leone si arrabbiò moltissimo e per dimostrare alla volpe che lei aveva torto, entrò nella gabbia. Immediatamente la volpe chiuse la porta di ferro e l’assicurò con la sbarra; poi rivolgendosi al bramino disse: “Nella vita non basta essere buoni e bravi, ci vuole sempre un po’ d’astuzia!”.

Quel giorno il bramino tornò a casa e meditò a lungo sull’insegnamento della volpe.

Gloria Micacchi

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12 thoughts on “India: dalla “parola Vāc” alla “pratica Yoga”

    1. Grazie Emiliano, fa piacere sapere che dalla semplice lettura oltre il contenuto arrivi l'”impegno” che c’è stato dietro. Un abbraccio…

  1. Articolo molto interessante, ben strutturato, non facile da leggere senza metterci un po’ d’impegno, ma mai noioso👍👍👍👍

    1. Grazie Massimo, per aver letto e soprattutto non esserti arreso… 😉
      In effetti avevo il timore fosse troppo lungo, ma poi ho pensato che valeva comunque la pena lasciarlo esattamente così come era, spontaneamente, nato.
      Qualcuno che riesce a “mantenere l’attenzione” per un tempo superiore ai “16 minuti e 31 secondi”, a quanto pare, ancora c’è. Ne sono immensamente rasserenata.

  2. Molto interessante!

    Mi limito a rilevare alcuni tratti di similitudine delle due favole con la nostra cultura (sabino-abruzzese).

    La prima favola con un proverbio: “la terra ‘ò la parte se” (la terra vuole la sua parte). Ci veniva ricordato quando, nelle raccolte agro-boschive, si verificavano delle perdite. Il proverbio esorta a non ostinarsi nell’eliminare gli sprechi, perché da essi dipende la vita di altri esseri: non si può pretendere di raccogliere tutto.

    La seconda favola con una nostra, quasi identica. Ad essere liberato è un drago e il liberatore è un lupo; unico giudice è la volpe. Mia madre la racconta con sottile teatralità, evidenziando l’astuta retorica della volpe e la rozza stupidità del drago, giustamente punito per la sua irriconoscenza. La riporterei per intero (perché l’ho trascritta in un mio testo), ma osservo che qui non si può fare copia-incolla. Te la trascriverò in privato.

    Un’altra cosa che mi ha colpito è un’affinità linguistica con le lingue slave. In ex Jugoslavia, l’equivalente della nostra esclamazione “salute!” è “zhivili!” o “zhivio!” (la combinazione zh sostituisce la z sovrastata da una piccola v, che qui non riesco a scrivere e si pronuncia come la j francese), che ha lo stesso significato dello “jiva!” indiano.

    A suo tempo mi aveva colpito che, nelle lingue slave, la radice del verbo “svegliare” fosse la stessa della parola “buddha”, che significa appunto lo svegliato.

    Scusa la sovrabbondanza di questo “commento”, un po’ vanaglorioso!

    1. Mille grazie Michele
      Per i parallelismi e gli spunti sull’etimologia 🤍
      (Anche a Chieti era usanza, e fino a non molti anni fa capitava sempre durante le giornate delle “bottiglie”: ogni qualvolta un pomodoro pelato o tagliato cadeva a terra si sostituiva all’imprecazione la benedizione “pur la tèrr vó la part’a’sé”

    2. Caro Michele, non sai quanto apprezzi i tuoi commenti “vanagloriosi”!!! Tantissimo e di più!
      Suggerirei, per chi legge, il tuo libro dal titolo “Il tesoro delle Colline e degli Altipiani, 300 e più storie dell’Appennino sabino-abruzzese, perché i giovani imparino a vivere”…
      Un Caro Saluto.

  3. Le radici nobili dell’anatomia sottile della spiritualità, si confermano collocate nella culla di quella civiltà, ed è bellissimo ritrovare e riconoscere le emanazioni del loro sapere ovunque negli altri continenti, con una sequenzialità che non lascia spazio a dubbi: loro forse non ne sono i capostipiti, ma sono gli unici ad essere riusciti a preservare la grandiosità dell’origine umana nel tempo.
    Lo yoga è un frammento di quella conoscenza che ha il potenziale di avvicinarci. Senza curiosità studio e approfondimento però, resta una nota solitaria e sterile in un occidente che fa confusione tra religione e spiritualità.
    Grazie Gloria ❤️ per questo lavoro di studio e approfondimento eccelso!

    1. Grazie a te Dory, per leggere e andare sempre così a fondo nell’accoglimento e nella comprensione. Dalle nostre parti, in Occidente e qui in Italia soprattutto, ce ne son stati di grandi yogi, seppur appellati in altro modo. Da tenace ammiratrice di San Francesco, vivendo nei luoghi ove egli ha dato vita alla Regola dei Frati Minori, mi vien da chiedermi se la nostra più grande colpa non sia l’aver dimenticato e il “non voler” ricordare…
      Un bacio.

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