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La palla di fuoco sale sempre più in alto degradando in colori via via più tenui e, dall’altra parte, i ghat hanno cominciato a popolarsi, donne stendono le loro sari sui gradoni, sadhu completamente immersi completano le loro abluzioni in perfetta simbiosi con la luce solare a cui espongono le loro nudità, bambini ammassati su loro stessi giocano dove l’acqua arriva appena, tra la melma dei fiori e il ristagno, e nelle loro urla giocose non c’è traccia di severità ritualistica: per loro Shiva è un compagno di giochi come un altro. Le pire continuano ad esalare fumi e fiammelle senza sosta, i corpi bruciano e tutto si ripete: con la morte inizia la vita e con la vita inizia la morte. Mai come in quel momento Varanasi mi appare la traduzione letterale di tale equazione.

Così la mia penna immortalava momenti irripetibili durante la permanenza a Varanasi (Benares), una delle città più sacre e controverse dell’India, dove la visione yogica dell’unione Morte-Vita è talmente esposta da rendere evidente in un solo secondo secoli di spiritualità. Lascio che a parlare sia il racconto a caldo di quel secondo, quando i miei occhi si sono soffermati per la prima volta davanti a un corpo che brucia, nel luogo sacro delle cremazioni sul Gange, il Manikarnika Ghat. Qui molti hindu scelgono di terminare la loro vita perché qui, si dice, è più facile terminare il ciclo delle rinascite.

Manikarnika Ghat

Non avevo mai visto un corpo bruciare. Non avevo mai visto il corpo bruciare. Il ragazzo ha ancora il viso intatto, grondante di sangue dal collo in giù e alle estremità del rogo le gambe fuoriescono intonse. È nel centro che brucia, un amalgama di carne, legna e fiamme dal quale lo sguardo può uscirne sconvolto oppure rigenerato per sempre. Un capogiro, il respiro quasi si vergogna, l’attrazione a tratti macabra, la coscienza che emette gemiti impercettibili, gli occhi che fanno il giro del mondo in 60 secondi come nel precipizio della ruota del tempo, si soffermano sui particolari per non esplodere subito nell’incontenibile ruggito dell’Insieme.

Intorno non c’è scompiglio, nessuna scena conturbante, quella solita quiete di sottofondo che sembra avvolgere i ghat di Varanasi qualunque cosa accada.

Scorgo solo una donna in lacrime, accoccolata per terra e avvolta nell’abbraccio di un uomo. Chissà quale vita sta compiangendo! Accanto a quella del ragazzo, ci sono altre due pire che stanno compiendo il loro lavoro. Quello in cui mi trovo in questo momento è il ghat minore delle cremazioni dove si trovano anche i forni elettrici, quello destinato ai meno abbienti che non possono permettersi il costo della legna per le pire più “prestigiose” del Manikarnikat Ghat, il “santuario” delle cremazioni, il luogo sacro per eccellenza dove approdano i corpi da tutte le parti dell’India perché Varanasi è il luogo ideale per morire.

“Scoprirai che anche la morte è amore” – di nuovo mi risuonano dentro le parole della mia amica prima di partire, il soffio sciamanico che mi percuote il ventre come un tamburo di pelle, ogni volta che una scintilla di verità sembra affermarsi sulla tavola della mia percezione qui a Varanasi dove tutto abbaglia, persino la notte più oscura.

Il cerimoniale della cremazione, in realtà, avviene tutto prima, quando i parenti accompagnano con i loro riti il viaggio dell’anima del defunto. È questo il momento cruciale e pregnante, dopodiché è tutto finito: il corpo sulla pira viene quasi abbandonato a sé stesso, perché ormai è solo un contenitore vuoto, una carcassa che ha ultimato il suo compito, il culto del corpo si esaurisce con la fuoriuscita della sua controparte spirituale. Dopodiché subentra il distacco, poco importa che quel corpo abbia ancora impressi i tratti di una persona cara, poco importa che quei tratti vengano deformati nel tempo che serve al fuoco per incenerirli. Poco importa, ed è una richiesta di resa totale.

Arrendersi all’impermanenza della materia e stipulare con l’invisibile un patto, andare al di là delle apparenze, stuprarle senza sentimento alcuno anche se si tratta di sembianze care, troppo care… Essere tu quel fuoco che brucia, che arde e incenerisce, che tutto trasforma, che tutto rigenera. Diventare fuoco, quando la commozione inevitabilmente ti assale, lo sgomento misto a insopportabile dolore, diventa fuoco. Divento fuoco per non impazzire. Entro nelle fiamme, in quella virulenza di calore che non lascia nulla uguale a prima, imprimo la mia pelle nelle scintille che svolazzano nell’aria come spiritelli in preda al panico, mi addentro nelle profondità di quelle scottature sanguinolente e divento dolore, divento lacrime, divento straziante agonia. Ma non ci penso più, e non soffro. Perché sono in quelle cose, come il fuoco che arde perché deve ardere, come l’acqua che bagna perché deve bagnare, come il vento che genera aria in movimento perché lo deve fare.

Quei corpi bruciano perché devono bruciare, vuoti perché l’amore ha già preso un’altra forma di vita, perché l’amore è movimento, non rigidità. Entro dentro alla morte e non ci penso più. È solo un passaggio, un sogno, un rapido svenimento. Quel che conta, rimane. E solo così ne esco viva.

Eccolo, l’insegnamento dell’amore qui a Varanasi, il flusso della vita che procede ininterrottamente senza soluzione di continuità, la morte non desta scalpore, desta solamente. Mi sembra di essermi svegliata da un sogno, oppure di essere entrata in uno ancora più nitido.

(Testo tratto dal libro Un qualsiasi giorni a Varanasi, disponibile in formato e-book Amazon Kindle)

Ancora dopo tanti anni da quel viaggio che fu a pieno titolo un vero spartiacque per la mia coscienza, rimangono vivide le immagini di quel rituale corporale così spietatamente inceneritore e dunque, “illuminante”. Il Beato Tremendo che incontrai davanti alle pire fumanti è stato il mio spirito guida votato a rendermi sempre più partecipe – nel mio vissuto quotidiano – di una commozione più grande, di una bellezza più grande, addirittura insostenibile eppure vivificante e salvifica di fronte agli attaccamenti più radicati del mio ego: una iniziazione al sacrum-facere (non sacrificio bensì “opera sacra”) di cui lo yoga nel suo approccio integrale (Purna Yoga) è strumento concreto e insieme metafora assoluta con quel suo renderci disponibili a ciò che vibra nell’eternità incenerendo le memorie personali che congelano nell’apparenza le fiamme luminescenti dell’Infinito.

Cecilia Martino

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